Archivio mensile:marzo 2012

Elsa, i’ vorrei che tu e Iva e io…

Gentile ministro Fornero,
vorrei invitarla a cena.
Lei ha l’età dei miei genitori e io quella di sua figlia. Non solo: mi chiamo Silvia, come sua figlia, e come lei ho studiato medicina. E sono ben educata e non lascio niente nel piatto. Sono sicura che sarebbe facilissimo capirsi e trovarsi simpatiche.
Intanto, se ne ha voglia, tra l’antipasto e la panna cotta (o il tiramisù, scelga lei), le racconterei due cose sulla mia partita Iva.
Solo sulla mia, sia chiaro: quelli come me sono non-rappresentabili per definizione.
Non so, forse potrebbe scoprire di avere qualcosa da imparare, come ogni tanto capita ai miei genitori. E’ buffo, sa: loro vivono la mia partita Iva come una malattia infantile che non guarisce mai, uno strano esantema che si è tatuato sulla mia faccia e mi rende un po’ diversa da loro, ma non per questo meno disposta alla ricerca della felicità, magari qualcosa su cui stare all’erta, come un handicap leggero e ben vissuto. Finché non succedono guai, sono solo un po’ bislacca: e allora speriamo che non succedano guai.

Per esempio, le racconterei quanta rabbia fa quando ti chiedono la fattura ma poi non ti pagano per mesi. E rabbia è poco.
Siccome chi è professionista (attenta a questo passaggio) paga l’Iva a ogni trimestre, ti può capitare di anticipare diverse migliaia di euro in un trimestre in cui non hai incassato niente, come sta capitando a me in questi giorni.
Non è che se sei una partita Iva e sei professionista hai maggiori tutele, anzi. Anzi. Non sto incassando niente e dovrò anticipare un sacco di tasse.
Ma i miei amici che non sono iscritti a nessun albo professionale (mettiamo, i laureati in filosofia, tipo, o in fisica) adesso non dormono la notte per la norma dei sei mesi di contratti su un anno con un unico cliente: adesso quello che temono è che le aziende per cui lavorano si limiteranno a contrattualizzarli sei mesi. Punto. Mica a regolarizzarli.
Quelli come me, intanto, potranno tranquillamente lavorare con la cosiddetta falsa-partita-Iva. Che non è, attenzione, solo essere monocliente, cioè fatturare (quasi) solo per un unico cliente all’anno, ma è più banalmente lavorare per qualcuno che, anche solo per due mesi, ti fa firmare un contratto liberoprofessionale ma poi ti chiede lavori con tempi e mansioni di un dipendente. Senza tutto il resto.
Ed è difficile che, potendolo fare, avendone la fortuna e gli strumenti, non cercherò di lavorare per altri nei finesettimana o dopo cena: ha presente che paura viene quando d’un tratto ti escono cinquemila euro che, forse, recupererai nei mesi successivi, chissà quando?
Allora giù a cercare altri clienti, diamoci da fare: mai e poi mai voglio trovarmi monocliente.

Noi professionisti e loro non professionisti non abbiamo mai pensato di essere rivali. O meglio: noi partite Iva siamo per definizione l’una rivale dell’altra, sennò non ci avrebbero inventato. Sennò non sarebbe così facile tenerci buoni, sennò non riusciremmo a stare zitti. Ma a questa distinzione non avrei mai pensato.
I miei colleghi, comunque li consideri, sono qualcuno iscritto a un albo e qualcuno no, ma le assicuro che non ho mai visto contratti diversi tra i miei e i loro. Da adesso cominceremo a immaginarci nemici, perché se a lui lo contrattualizzano sei mesi forse a me ne danno dodici, però se non mi pagano puntualmente sono guai, e così via.
Che fatica, ministro.

Sa che cosa? A me la partita Iva piace. Non saprei spiegarle bene perché. Ci sono cresciuta: è la mia identità professionale. E infatti non è lei il problema.
E’ l’azienda, l’istituto, l’università (pubblici, nella maggioranza dei casi) che non paga per mesi e mesi, e ti lascia senza nessuna possibilità di ribellarti, il problema. E’ questo paese in cui una come me ha dovuto spiegare, più volte, all’agenzia delle entrate come ha fatto a comprare casa (ha presente quel signore chiamato babbo?), dovendo contestualmente dimostrare di non possedere cavalli da corsa, elicotteri e fuoribordo, ma solo una bicicletta e un abbonamento dell’Atac, mentre il parrucchiere e il pizzaiolo di fiducia non le hanno mai fatto lo scontrino. E’ la sensazione di abbandono e incomprensione che mi monta addosso quando leggo i giornali. E’ questa cosa per cui si parla per mesi dell’articolo 18 quando, fatti e rifatti i calcoli, conosco solo un mio coetaneo che è direttamente toccato dalla questione.
Vabbè, ministro. Vado a sistemare la contabilità del trimestre, ché domani devo spedirla alla commercialista (siamo già al 26 del mese!).
Se accetta il mio invito a cena, però, non voglio storie: offro io. Tanto mi faccio fare fattura, e poi ci scarico l’Iva.

Partite Iva, non facciamoci confondere le idee. Il problema non è (solo) il monocliente

Già che ho la bocca aperta vorrei dire la mia idea su questa faccenda delle partite Iva vere e false.
Credo che la questione chiave non debba essere se uno è monocliente o no.
Cioè: se hai la partita Iva come tu fossi un idraulico e però fai una fattura al mese, tutti i mesi, allo stesso cliente, di sicuro c’è un grosso problema: nessun indraulico lavora in pianta stabile per un unico cliente e probabilmente la tua partita Iva nasconde un rapporto di lavoro che ha tutto della dipendenza, tranne i diritti e le garanzie che a un dipendente vero sono accordate di necessità.
Ma se non sei monocliente il busillis può esserci lo stesso.
Perché il problema non è che cosa ci fai tu con la tua partita Iva.
Il problema è che cosa ci fanno i tuoi clienti.
Mi spiego: se uno dei tuoi clienti ti propone un contratto liberoprofessionale di, poniamo, tre mesi, e in quei tre mesi ti fa lavorare con tempi e mansioni analoghi a quelli di un dipendente (anche un dipendente a tempo determinato, intendo), ma senza i blablabla che sappiamo bene (malattia, gravidanza, mensa, ferie, straordinari e soprattutto con la possibilità di lasciarti a casa a metà contratto, e lasciandoti senza niente nel caso i tuoi altri n clienti non arrivino per qualche mese e blablabla), c’è lo stesso qualcosa che non va.
Soprattutto se poi questi mesi di contratto liberoprofessionale diventano otto, nove, dieci, per sei, sette, otto anni. E indipendentemente dal fatto che tu passi le notti e i finesettimana a fare altre cose per altri clienti, per i quali poi regolarmente fatturi.
Se tu fossi un idraulico le cose non andrebbero così.
Perché quando ho fatto i lavori in casa, l’idraulico è stato qui un paio di mesi.
Ma intanto gestiva da sé i suoi tempi di lavoro (con gli altri clienti e con se stesso, immagino), non controllavo i suoi orari, faceva da sé le sue cose in totale autonomia: avevamo detto due mesi e due mesi sono stati. E, dettaglio non indifferente, prima che cominciasse a spaccarmi i muri abbiamo contrattato il suo compenso.
Ecco: io, per me, non voglio il posto fisso. Io voglio diventare un idraulico.
Oppure non voglio far finta di essere un idraulico quando, anche solo per tre mesi, anche solo per un solo cliente, passo le mie giornate a lavorare con i tempi e i modi del mio compagno di scrivania, che invece è, non si capisce bene perché, un dipendente.
Stop, torno a chiudere la bocca.
Sennò attacco col distinguo tra professionisti e non professionisti che proprio non si capisce perché debba esistere.

Io tossica: come superare il rebound da fine contratto senza far uso di droghe pesanti

Evidentemente sono una drogata.
Quando finisce un contratto, quello per cui hai lavorato a rotta di collo per settimane, mesi, dedicandogli l’85% del tempo-lavoro, accumulando per momenti migliori gli altri lavori – che a quel punto chiami lavoretti per giustificare la scarsa attenzione che dedichi loro – sognando tutte le notti quello che dovrai fare o che avresti dovuto fare o il pasticcio che ti sta scoppiando in mano per quel lavoro lì, solo quello lì, e per mesi non vivi per altro che per riuscire a imbroccare quella cosa e solo di quello vivi e… insomma: quando finisce un contratto pesante si vive un rebound simile a quello del depresso che sospende i farmaci da un giorno all’altro.
Stessa cosa. Stesse occhiaie, stessa piangina, stessa abulia.
E hai voglia a dire che finalmente avrò il tempo per tutti i miei altri lavori: per qualche giorno la tua missione dev’essere la ricerca di endorfine, altrimenti finisci sul divano a credere di leggere un libro e ad aspettare che qualcuno ti stani.

Ormai ci sono abituata e sono anche bravina ad anticiparlo, il rebound. E infatti stavolta ho una lista di cose da fare lunga così che comprende viaggi in lavanderia e persino dal corniciaio, turismi scientifici in altre città, pranzi, mostre, assemblee e un sacco di burocrazia di quella tosta, con i miei due conti correnti e altre amenità.
I lavoretti piano piano partono e vederli partire fa bene all’umore, ma la situazione è fragile: basta un dettaglio spiacevole in una giornata decente per far affogare il cervello tra i pensieri e il risultato è che mi viene la faccia cerea, lo sguardo assente, taccio per ore e sembro stonata. In realtà sto solo dialogando con me stessa, al ritmo forsennato che i miei neuroni sanno tenere quando lavorano anche se adesso non lavorano quasi più.
Gli amici sopportano, qualcuno si offende, qualcuno prova a fare il pagliaccio. I lavoretti aspettano serafici: loro sì che mi sanno capire.

E poi ci sono le ginnastica-related endorphins: ieri sono andata addirittura a un corso di GAG, cioè femmine in ansia per la prova costume e pensionate che al mattino hanno voglia di mettersi una tutina aderente e di guardarti sfacciate, tutte lì a fare flessioni e affondi mentre una certa Sara strilla Forzaaaaa! Che finché si è trattato di usare i muscoli, ok. Ma quando ci hanno fatto fare un po’ di esercizi aerobici a tempo di musica sono ripiombata nella sindrome del ragazzo-coccodè e anche le endorfine mi hanno guardato con perplessità.
Oggi sarà il turno delle bicicletta-related endorphins. Credo che nel pomeriggio mi concederò un po’ di gelato-related endorphins. Stasera avevo una cenetta-related endorphins ma forse mi salta. Recupererò con le birretta-related endorphins, che poi sono le più efficaci.

Ho scoperto da un amico economista che il problema della mia tossicodipendenza si chiama search-on-the-job. Cioè mentre lavoro cerco altro lavoro, e organizzo i prossimi lavori mentre sto ancora lavorando per un altro cliente. E se sono lì, seduta, e questo d’un tratto mi leva la sedia da sotto al sedere non posso cedere: prendo la culata, ma non smetto di dedicarmi agli altri. Sennò crollo. In senso professionale.
Sono anni che vivo così, anche da prima di saper dire search-on-the-job, e credo di poter essere orgogliosa soprattutto di una cosa: del mio ingiustificato equilibrio mentale. In fondo, chissà perché, tengo botta alla grande. Sarà grazie a un training niente male che risale a un paio di decenni fa.

Da adolescente, una parente stretta con problemi della condotta alimentare mi faceva pesare e poi commentava ad alta voce Beh, i tuoi chili ce li hai eh… a me, che non sono mai stata nemmeno paffuta. Poi mi parlava di cibo e mi osservava mentre mangiavo: a passeggiarci in città era imbarazzante la sua manifesta ossessione per la ciccia di chi ci camminava accanto. E una volta, mentre, sedicenne, provavo un paio di pantaloni alla Benetton, si affacciò nel camerino e mi sussurrò, ridacchiando complice: L’hai visto come ti ha guardato la commessa?! Dev’essere invidiosa del tuo bel personalino, mentre lei è così grassa…
Non ho mai fatto una dieta e ho sempre mangiato con gusto e soddisfazione, nonostante tutto questo.
E anche adesso, nel mio search-on-the-job, mantengo un invidiabile personalino e mi accontento delle endorfine che mi passa il pusher qua su in cima.
Però è faticoso, vi assicuro. Soprattutto verso le quattro del mattino.

Adesso basta: torno ai lavoretti e tra un’ora e mezzo inforco la bici. Ancora qualche giorno e sarò fuori dal tunnel. Tornerò a dire di me che sono una vera partita Iva, una Marcegaglia della comunicazione della scienza, un’imprenditrice di me stessa, una che vive a testa alta di tanti contratti e non di uno grande e tanti piccini, eh. (…).
Intanto cercate di capirmi e scusatemi se sono assente o giusto un po’ scontrosa. Sto a ròta, come diciamo noi partite Iva non-monocliente-ma-quasi.

(Dimenticavo le blog-related endorphins: sto per inaugurare una nuova serie dal titolo I nostri antenati. Gli antenati del freelance, intendo. Si accettano suggerimenti).

Tu precario, io freelance: su la testa, collega

Giornalista precario a chi?! Cioè, sì, va bene. Anzi, no, no. Ci sono due problemi in quella locuzione. Primo: in tanti, e io tra questi, facciamo i giornalisti ma non abbiamo mai avuto rapporti con l’ordine e dunque forse non siamo giornalisti, almeno per i giornalisti che lo fanno e lo sono e non devono arrovellarsi troppo sulle questioni identitarie ed esistenziali che attanagliano noi.
E poi precario, insomma, a me non va mica tanto bene: sono una freelance, vivo con il mio tempo, la performance e la partita Iva. Non voglio sentirmi chiamare precaria perché se uno fa il libero professionista (che l’abbia scelto o no) lavora così, a tratti, a periodi, che poi vuol dire che lavorare lavora sempre ma non viene pagato con regolarità. Però va bene: quando ho cominciato a lavorare io c’erano internet, l’euro, la partita Iva. Punto. Io amo la mia partita Iva perché mi ricorda che sono vIva.
Ma all’assemblea dei giornalisti precari ci sono andata lo stesso.

E oggi sono qui che ci rimugino.
Intanto credo che faremmo bene ad allargare un po’ lo sguardo, come si dice in questi casi. Un tempo i giornalisti erano soprattutto quelli che scrivevano sui giornali, e avevano tutti rapporti di lavoro dipendente a tempo indeterminato con l’editore per cui scrivevano, e poi c’erano quelli della radio e quelli della tivvù. Oggi non è cambiato solo il modello contrattuale prevalente, sono cambiati (di conseguenza, o forse no: forse sarebbero cambiati comunque) anche i modi di fare il giornalismo.
Vabbè, c’è internet. Vabbè, di sola carta non si vive più. Vabbè, dalle nostre parti c’è un editore che possiede mezza Italia e che si è fatto un po’ di leggi a proprio beneficio. Ma non basta. Prendete noi giornalisti scientifici.
Noi scientifici, tipicamente, facciamo un sacco di cose diverse. Abbiamo una forte specificità di materia, la scienza, e la decliniamo per più media. Sono pochi i giornalisti scientifici della mia età che facciano solo giornali o solo radio o (figuriamoci) solo tivvù. In genere abbiamo una collaborazione principale e poi scriviamo per un altro giornale, magari abbiamo anche una roba online, collaboriamo con un editore, partecipiamo all’organizzazione di un evento. Tutta roba di scienza. Io sono particolarmente schizzata, ma vi giuro che per molti è più o meno così. Spesso, inoltre, facciamo cose che i non-scientifici definirebbero non-giornalistiche, e a torto (o per lo meno, in modo un po’ miope), come una traduzione o un’attività con le scuole.

Ne segue che siamo anche più fortunati della media dei nostri colleghi: lavoriamo di più e in modo più vario. E ogni tanto ci chiediamo perché gli altri non facciano come noi. In cambio di un po’ meno di giornalisticità ne avrebbero un bell’allargamento del mercato. Ma se non lo capiscono tutti, subito, in massa, a noi sta solo bene.
Ne segue anche che a quelli come noi mettersi in società, in qualsiasi modo, conviene. Un gruppo di freelance ha le spalle più larghe di un solo freelance, sia quando si tratta di contrattare (vendi più pezzi insieme, ed è difficile che tu finisca per lavorare gratis) sia quando si tratta di tutelarsi di fronte ai rischi del lavoro liberoprofessionale sia quando ci sono le vacche magre e ti arriva un unico enorme lavoro che da solo non riusciresti a fare.
No, io non faccio parte di nessuna cooperativa né di nessuna agenzia, ma molti dei miei colleghi lavorano così ed è anche per questo che fanno diverse cose insieme: costruiscono siti web, scrivono per la carta stampata, lavorano per grossi eventi, conducono programmi alla radio, collaborano con enti di ricerca. Tutto in gruppo. Io lavoro spesso con diverse di queste agenzie e ne ho diversi vantaggi. E comunque faccio un miliardo di cose in contemporanea e quelle che faccio da sola sono solo le cose che si possono fare solo da sola.

Noi scientifici, a margine, non soffriamo della sindrome dei quattro euro a pezzo. Non so perché, ma davvero non mi capita mai di sentire il mio coetaneo (se si parla di lavoratori alle prime armi la cosa cambia, occhei. Ma ricordiamoci di monetizzare anche l’investimento che si fa nel lavoro, per cui il pezzo viene pagato 4$ + crescitaprofessionale + contatti + speranzadicontinuarelacollaborazione + … Qui sto parlando di gente che ha qualche anno, non molti, di carriera alle spalle e che lavora per lavorare oggi, non domani), insomma dicevo: non mi capita mai di sentire il mio collega scientifico davvero molto maltrattato dai propri clienti. Forse anche perché chiamarli clienti aiuta, non so.
Non credo che siamo più intelligenti della media (cioè: a volte lo penso, ma via, giù… rimanga tra noi…). Né credo che abbiamo fatto una pensata in più rispetto agli altri su dignità e soprattutto responsabilità che il nostro lavoro ci accolla. Per me, chi accetta di lavorare per due lire è un irresponsabile e l’ho già scritto. Ma non tutti la pensano così. Semplicemente ne ragioniamo in modo quasi teorico, e poi riattacchiamo a lavorare.

Insomma, alla fine penso che sarebbe bene smettere di ragionare per categorie professionali stagne definite dagli ordini professionali. Io mi sento giornalista, ma all’ordine non gliene frega niente di me e rinuncia a controllarmi pur di non avere un’altra bocca da sfamare: ho diversi colleghi che non si sentono nemmeno giornalisti, ma vivono degli stessi lavori miei. Se non parliamo più di giornalisti definiti per l’appartenenza all’ordine ma riflettiamo sul senso del nostro lavoro per come lo facciamo e per come lo faremo nei prossimi anni credo che ci convenga togliere per prima cosa la parola giornalisti. E poi anche quella precari, che è così sofferente e presto sarà talmente tanto diffusa da diventare normale.
Non so: chiamiamoci lavoratori intellettuali che si battono per la dignità del proprio lavoro con un forte senso di responsabilità e di impegno verso la società, società che vive anche del nostro mestiere. E’ un po’ lungo, lo ammetto, ma in attesa di trovare una sintesi migliore vuole essere un invito a guardare qualche centimetro più in là.

Il moderatore invisibile: secondo voi che cosa ci sto a fare, io, qui?

Dici inesperienza, dici fretta. O forse dici difetti di comunicazione. Niente di grave né di particolarmente seccante. Ma sono sbalordita. Non pensavo che potesse succedere.
Mi chiamano a moderare un evento. Da Roma, prendo il treno e arrivo. Ho l’albergo, i pasti e il gettone di presenza. Lo faccio di lavoro e lo faccio volentieri. Qui, poi, ci vengo da anni: evidentemente lo faccio anche bene, visto che mi richiamano sempre.
Stavolta però la cosa si presenta da subito complicata. Uno dei due relatori è straniero. Poco grave: conosco le lingue e comunque la zelante organizzazione mi manda un abstract dell’intervento con giorni di anticipo. L’altro relatore non risponde alla mia mail, ma sono cose che capitano e comunque la sera prima mi confermano la sua presenza e tutto è a posto. Ci sono poi, da programma, un’introduzione e un saluto delle autorità. D’accordo, cose che stanno in cima e che sono generalmente in mano all’organizzazione. E infatti è così. Complicato ma perfettamente gestibile.

Però l’ospite straniero va tradotto e mi dicono che lo farà chi farà anche l’introduzione scientifica, cioè l’onorevolissimo ordinario supercapo. Pericoloso, penso io, ma avranno stabilito prima anche questo.
Così sono sul palco con i due relatori, stiamo sistemando le diapositive, ci stiamo confrontando, sto chiedendo qualifiche e affiliazioni: l’organizzazione mi darà il via e le cose vanno lisce. Finché, d’un tratto, sul palco non salgono anche l’ordinario, l’altro professore che deve portare i saluti, la mia referente dell’organizzazione e non ho capito chi. In due secondi da tre diventiamo sette o otto.
In genere comincia qui il momento clou dell’evento, per me. Devo dare due disposizioni registiche (chi si siede qui? come la facciamo questa traduzione? siamo d’accordo sull’ordine delle cose?) e poi sedermi e aprire le danze, salutare il pubblico e così via. L’ho fatto cento volte, lo faccio decine di volte all’anno. E invece stavolta sono ancora lì in piedi quando qualcuno accende il microfono e comincia a parlare: l’ordinario.
In un attimo il palco si svuota: i relatori filano a sedersi, gli altri scendono di corsa. Io rimango di fronte all’ordinario, che intanto è già lì al microfono, e chiedo: stiamo già cominciando?! Ma ci siamo tutti? E ci hanno dato il via? Come risposta ricevo uno sbuffo seccato e niente più: l’introduzione va avanti.

Mi siedo e mi guardo intorno. Che succede? Cerco gli occhi della tipa dell’organizzazione seduta in platea. Intanto l’introduzione comprende anche una breve presentazione dei relatori, una descrizione della scaletta e l’introduzione ai saluti. Ed ecco i saluti. La parola torna all’ordinario che fa alzare il primo relatore e lo invia al leggio. Che cosa mi rimane da fare? penso. Niente: ancora non lo so, ma non riuscirò più ad aprire bocca.
Solo quando i tempi sono completamente sforati riesco a ottenere l’attenzione dell’ordinario e a mostrare l’orologio. Al relatore si diano cinque minuti! E invece quello se ne prende quindici, senza nemmeno guardarmi.
Con le domande ci riprovo, ma anche lì non funziona: avevo cominciato a gestirle, ma sono scavalcata.
Poi l’incontro viene chiuso e tanti cari saluti.

Beh, mi alzo ed esclamo: che cavolo mi avete invitato a fare?! Salta fuori che non si era capito (non era stato detto, forse io non avevo detto, vengo accusata) che ci sarebbe stata una giornalista a moderare e così hanno dovuto fare tutto da soli. Viene data la colpa all’organizzazione, io chiedo di essere rassicurata sul mio aspetto fisico (no, sarebbe successo anche se tu fossi un maschio di cinquant’anni con le spalle della giacca di grisaglia coperte di forfora… mi dicono, più o meno), l’organizzazione chiede di essere rassicurata sul proprio lavoro, io faccio notare che mi pagheranno lo stesso, l’ordinario si apre in un sorrisone di sollievo: finalmente ha capito chi fosse quella tipa in camicia rosa seduta al tavolo coi relatori. E fine della faccenda. Se ne vanno, io rimango a sentire l’incontro successivo.

Ah, aspettate. Devo fare una precisazione sconvolgente: l’ordinario era una donna.
E una chiosa: la mail dei due scienziati che chiedono di vederci (vederci!) a Roma prima della conferenza che dovrò moderare a Bari (Bari!) tra un mese e mezzo (un mese e mezzo!) ricevuta dopo questo episodio l’ho accolta con un pensieroso sollievo. Meglio così che l’ignoranza totale della figura del moderatore.

Caffellatte e contabilità: oggi mi sono svegliata tranquilla e ho curiosato nel mio conto in banca

Ti fanno: adesso puoi prenderti qualche giorno di riposo, ti sei stressata troppo e ora un po’ di tranquillità te la meriti davvero.
Allora ti alzi con calma (con calma, ma stai già pensando a quel lavoro da chiudere entro domenica, a quelle tre cosette da scrivere in corsa, a un paio di telefonate, due proposte, un appuntamento, un festival della scienza con tre moderazioni in due giorni e a un po’ di fatti tuoi tipo lavanderia, poste, palestra, riunione di condominio). E decidi di cominciare la settimana detta di tranquillità facendo quello che non riesci a fare da un po’, e che dovrebbe anche gratificarti, cioè il riepilogo della contabilità.
Dunque: a gennaio ho fatto sei fatture, ma una l’ho dovuta annullare e fanno cinque.
Nessuna, nessuna, è stata ancora pagata.
In compenso a fine febbraio ho ricevuto il pagamento di una fattura fatta a dicembre, cioè nell’anno fiscale precedente.
La mia contabilità è ferma da tre mesi. Dio come è tranquilla, lei.

In pratica questo significa che (anche per colpa mia, per carità) da novembre lavoro per una grande azienda pubblica (ehm) senza vedere una lira, anzi: avendo anticipato qualche migliaio di euro di spese. Sono stata rassicurata: il primo dei quattro frammenti di pagamento sta arrivando, ed è quello che contiene il grosso dei rimborsi più due spiccioli di compenso. Gli altri tre (anche per colpa mia, ma insomma) dovrò aspettarli ancora un po’.
Significa anche che i lavoretti per il grande gruppo editoriale (ehm) effettuati nel 2011 non solo non sono stati ancora pagati, ma nemmeno mi hanno preannunciato il pagamento chiedendomi formalmente la fattura. Ho sollecitato e può darsi che sia anche colpa mia: ora cerchiamo di risolvere la faccenda.
Mancano anche i soldi del grande istituto di ricerca, della grande università e del grande progetto finanziato dal grande gruppo industriale. Forse c’è un po’ di colpa mia, non so: intanto aspetto.

A me sembrava di aver lavorato bene e di essere stata puntuale e precisa. Sono un pesciolino piccolo piccolo, ma mi do da fare. E lo so che ci vuole pazienza, che si tratta di contabilità enormi e difficili, che i pagamenti si fanno a tre mesi (no?!), che se io ritardo nella consegna della fattura (?!) non posso poi lamentarmi, che entro fine marzo sta’ tranquilla: arriva tutto. Lo so, è vero. Stamani mi sono alzata volenterosa, e a tutto questo non ci avevo pensato. Se ci avessi pensato avrei di sicuro dormito fino a fine marzo. Tranquilla.

Qui ci vuole uno bravo: l’asino di Buridano, la scienza, la televisione e, a volte, me.

Sono in un enorme studio televisivo, in mezzo a gente che non conosco bene. Tanta gente. Ho un oggetto in mano: me lo hanno dato perché ciascuno di noi (noi chi, poi?) deve avere un simbolo della propria specializzazione. A me hanno dato una pallina: dev’essere una specie di modello atomico che qualcuno ha deciso essere il simbolo della scienza generica. Generica. Tipo: tieni, questo è scienzagenerica. Sono imbarazzo e la pallina nella mano destra mi fa sentire ancora più impotente.
La trasmissione si chiama L’altra Italia. Siamo lì, io e un nutrito gruppetto di anonimi colleghi, perché abbiamo fatto un pezzetto di qualcosa: un servizio breve, o un’intervista, o boh. Io non ricordo manco quel che ho fatto: sto zitta e mi guardo intorno, stringendo la mia pallina. C’è una aiutoregista isterica che ci mette tutti in fila davanti alla scenografia, come per una foto di gruppo. E d’un tratto, alle nostre spalle, parte un servizio registrato, uno dei frammenti della puntata di oggi.
Oddio, mi sento morire: si sta parlando di una fantomatica terapia per una malattia molto seria, terapia promossa da un ciarlatano corrotto che si dà aria da santone (una roba che esiste davvero ma non è la sede, questo blog, per discuterne). Nel servizio se ne parla a lungo, si intervista il ciarlatano con toni ossequiosi, se ne parla come di un’altra possibilità, alternativa a quelle offerte dalla medicina normale.
Oddio! Mi hanno ingannato! Perché non mi hanno detto che qui qualcuno avrebbe parlato di medicina?! Cacchio, non ci avevo pensato: L’altra Italia poteva essere declinato anche come L’altra scienza! Che orrore!
Mi butto per terra: prego, piango, imploro. Afferro per la camicia la aiutoregista, che mi guarda quasi con sguardo materno e mi chiede: che succede, silvia? Grido: non potete mandare in onda quella roba, quel tipo è un impostore! E lei: sta’ tranquilla, non esagerare: è solo uno dei servizi… tu hai fatto (segue roba di importanza ridicola) mentre a (segue nome di autorevole sconosciuto) abbiamo chiesto una cosa più di peso: un servizio su un modo diverso di fare scienza… Tranquilla, non è niente di particolare: del resto, sai, lui ha più esperienza di te in tivvù e…
A quel punto mi alzo, la guardo e, con le lacrime agli occhi, scuotendo la testa solennemente, le dico piano: Non esiste un altro modo di fare scienza. Ne esiste uno solo. Quello del metodo sperimentale galileiano.
Davanti a noi compare una stradina con un ponticello stretto preceduto dalle strisce pedonali, e con due marciapiedi ai lati delimitati da una catenella. Glieli indico, a lei che continua a sorridere dolcemente, e sentenzio, didattica, pur consapevole dell’inutilità del mio sforzo: non esiste un altro modo di attraversare la strada. Se scavalchi le catenelle e attraversi sulla cresta del ponticello non stai cercando un modo alternativo di andare sull’altro marciapiede: stai tentando il suicidio. Liberissima, ma è un’altra cosa.

E lì mi sono svegliata.
Chiedendomi soprattutto come cavolo mi fosse venuta quell’uscita sul metodo sperimentale galileiano, pronunciata scandendo le parole come una bambina che legga il titolo di un capitolo del sussidario. 
Che ansia. Che incubo.
Però bello il paragone sulle strisce pedonali: vedi di notte che ti produco…

La sera prima avevo riflettuto ad alta voce su un paio di episodi degli ultimi giorni. Quando avevo dovuto cercare con urgenza dati, numeri, informazioni e avevo cercato freneticamente l’aiuto di un paio di accademici di fiducia.
A differenza di quelli mobilitati prima e dopo, tutti più o meno comprensivi ed efficienti, a un certo punto ne avevo imbroccati tre di fila disastrosi che, rispettivamente: 1. mi avevano inviato via mail un bignamino sull’intera disciplina nel quale era impossibile trovare il dato che cercavo, 2. mi avevano dato per telefono una spiegazione diversa da quella che mi era stata data durante l’intervista, con una tonn di dettagli in più che mi hanno definitivamente smarrito, 3. mi avevano risposto con diciotto ore di ritardo, consigliandomi cortesemente di interpellare il maggiore esperto del settore che sicuramente avrebbe risposto entro altre diciotto ore ma con enorme competenza. E io avevo chiesto una banalità, eh, una roba che ad avere tempo avrei trovato anche su Google.
Devo smetterla con questa pervicacia: l’accademico fa un altro mestiere, non posso chiedergli di adeguarsi ai ritmi e ai modi della comunicazione, avevo affermato con decisione a cena.

E’ come se ogni dodici ore sbattessi la testa prima sugli scienziati, poi su quelli della comunicazione, poi di nuovo sugli scienziati, poi ancora su giornalisti e autori tv.
Un mio amico, uno che è scienziato ma è bravo con la sintesi purché sia riducibile in linguaggio matematico, l’ha spiegata così: io sto a te come tu stai ai tuoi colleghi non scientifici.
Cioè: quando parli agli scienziati pretendi uno sforzo di semplificazione titanico, quando parli ai colleghi non scientifici esageri col puntiglio. Tutta la vita così. Finché non stai sulle balle a tutti.
Ma non sono io che sono strana: è il mio mestiere che lo è.
Va bene: l’ho scelto io, è vero. E ogni tanto mi sembra quasi una missione, sento forte il senso del mio ruolo sociale: figuriamoci.
Ma adesso, per favore, posso tornare a sognare di perdere aerei, restare nuda in mezzo alla folla e dover ripetere gli esami dell’università?