Me son rott i ball, direi se fossi un ministro della Repubblica. Invece non posso far altro che deprimermi, almeno un po’. Perché son giorni che sento i miei amici, che ho selezionato con cura tra le menti migliori della nostra generazione, distrutti da problemi di soldi e di lavoro. Gente che pòsta su facebook, o ti manda nelle mailing list degli amici di infanzia, osservazioni deprimenti sul mondo o bollettini di guerra, dettagli sulla propria salute, insulti all’indirizzo di potentati vari, storie di cassa integrazioni per gente con due titoli post lauream, di lavori interrotti da un momento all’altro, di contratti capestro e di soldi mai arrivati. Che rabbia. Ma era così anche per i nostri genitori, quando avevano tra i trenta e i quarant’anni?
Però oggi, quando un amico mi ha chiesto se sarò alla manifestazione nazionale dei precari e mi ha proposto un passaggetto sul palco per fare un discorso, buh, mi son sentita un po’ fuori luogo. Di tutta la comitiva, io sono quella che col suo lavoro a partita Iva si trova meglio. Davvero ho almeno tre grossi lavori che gestisco con maestria, più un sacco di altre collaborazioni che ho scelto e seguo con reciproca soddisfazione. Non ci rinuncerei per un posto fisso. Alla Rai, poi. E se parlassi dal palco direi che il mio problema non è la forma contrattuale con cui mi si inchioda a una sedia facendo finta di avere da me un’augusta consulenza a distanza (almeno finché sono giovane e sana e senza altre bocche da sfamare) il problema è che ognuno di quei contratti ha una clausula con cui mi si cerca di fottere, oppure viene pagato con gran ritardo. Perché io ormai in questo libero mercato ci sono cresciuta e ho imparato a starci e le lotte contro la precarietà, da sole, senza una riflessione di sistema sul mondo in cui ci hanno infilato, mi sembrano un po’ povere.
Detto questo (anche a costo di essere spernacchiata dagli amici di cui sopra a cui voglio davvero molto bene), vorrei provare un link. Quotidiano nazionale, qualche giorno fa: il giornalista cita uno studio che coinvolge misteriosi ricercatori italiani, ma poi virgoletta solo frasi di ricercatori stranieri. Al Gr, lo studio è ripreso con lo stesso sistema: i ricercatori italiani citati di sfuggita, quelli stranieri per nome e cognome. Vado su Google, alzo il telefono, e non solo scopro chi sono questi ricercatori italiani, ma scopro anche che hanno moltissimo a che fare col terremoto giapponese, su cui tutti quanti noi stiamo lavorando, per cui faccio una gran figura con un paio di telefonate appena. Ah: i ricercatori italiani non avevano letto il giornale né sentito il Gr. Non so in quali condizioni siano stati scritti e scelti quei pezzi proposti dai miei colleghi di altre testate, né so che cosa leggano i ricercatori italiani, ma mi fa un po’ effetto pensare che la comunicazione e la scienza in Italia vadano avanti così. Più o meno quanto mi fa effetto pensare che il lavoro, in Italia, vada avanti come i miei amici mi insegnano. E allora, la riflessione di sistema? Direi che per me è questa: il posto fisso forse non esiste più, e forse non è nemmeno un dramma, però ognuno di noi potrebbe prendersi la briga di alzare un po’ la testa dalla tastiera e di guardare che cos’altro succede al mondo. Sennò finiamo per lamentarci, invece sarebbe bello protestare.