Chiede di restare anonima perché non si sa mai. Intanto apre un cassetto sul fondo della sua libreria e ne tira fuori due grossi dossier bianchi. Uno è alto più di due dita, l’altro è la metà. Mi ero dimenticata di averceli, mi dice: me li aveva dati l’ufficio stampa di una grande ditta farmaceutica, per valutare la comunicazione su un certo farmaco che aveva appena lanciato sul mercato. Comunicazione in seguito ad azione proattiva mi avevano detto: cioè agenzie e articoli pubblicati da giornalisti che avevano partecipato a generose conferenze stampa, ricevendo cartelle stampa pronte per essere copiate, e probabilmente tutti schedati in un indirizzario che mi devono anche aver fatto vedere. L’indirizzario dei giornalisti amici? Sì, quelli il cui lavoro mi stavano chiedendo di valutare con occhio esterno.
E tu che cosa ne hai fatto? Che cosa vuoi che ne abbia fatto? Me li sono letti con gusto, ho compilato diligentemente la relazione per la ditta farmaceutica e non ne ho più voluto sapere. Della ditta farmaceutica, intendo: sono giovane e voglio continuare a lavorare, libera e squattrinata, come oggi. Non posso fermarmi qui: mi sento la Julian Assange della comunicazione della scienza (un po’ anche la Emil Kraepelin della blogosfera, ma lasciate perdere). Del resto, nessuno ha mai chiesto alla mia giovane collega di non mostrarli a nessuno, e lei ogni tanto li ha anche fatti vedere in giro.
Ma dentro che cosa c’è? Ci sono centinaia di articoli di tutti i tipo: lanci di agenzie, articoli di riviste, di quotidiani, articoli pubblicati in rete, cose per pubblici più o meno specialistici (ma quello che è in rete è disponibile a tutti, e il fatto che il sito si chiami dottorqualcosapuntoit è quasi un phishing: gli articoli pubblicati su questi siti fanno solo finta di essere scritti da medici per medici…). E di che parlano? Sono i primi quattro mesi di vita (sì, pochi mesi soltanto!) di un farmaco che allora era nuovo, anche se molto molto simile a un altro centinaio di altri farmaci già in commercio. Per cui bisognava spingere molto perché emergesse. Insomma: non era la novità del decennio in fatto di medicina, né era un salvavita, era il classico farmaco per la cura di una nonmalattia che serve a prevenire altre malattie. Tra l’altro, si fa presto a confondere le acque: il farmaco migliora la condizione di base (la nonmalattia), ma previene la vera malattia? Boh. Io non l’ho capito.
Vabbè, ma che male c’è a fare una rassegna stampa dopo aver pianificato una campagna stampa? Non fanno così anche gli istituti di ricerca pubblici? Forse niente, basta che anche noi sappiamo che funziona così. L’articolo sulla nuova terapia che hai appena letto sul giornale potrebbe essere nato dall’azione proattiva di un bravo ufficio stampa che ha organizzato una bella conferenza stampa in un posto molto figo, magari un po’ lontano da casa (insomma, bisogna passare la notte fuori. Ma tranquilli: basta chiedere una matrimoniale), forse a lato di un congresso medico in cui, per dovere di ospitalità, si organizzano sessioni parallele per i giornalisti e poi si consegna loro un bel po’ di materiale ben confezionato, con tanti nomi di accademici e primari e relativi virgolettati, e numeri facili da capire. Poi, per essere sicuri di aver fatto un buon investimento, si fa una bella rassegna stampa, rilegata in due faldoni bianchi come quelli che ha in mano la mia interlocutrice. Non c’è niente di male, è vero, sennò glieli avrebbero richiesti indietro. Allora non ci dev’essere nemmeno niente di male a raccontarlo in un blog.
Ma è sempre così? Non lo so, forse no. Però, sai, ci sono cose che a volte insospettiscono. Questi nomi di grandi studi clinici che si chiamano come i musei di arte moderna: tutti con acronimi facili da ricordare. Oppure questi grandi allarmi che boh: o sono del tipo grazie-al-cazzo o del tipo questa-poi. Alla fine, chi vende farmaci non lo fa per beneficienza e quando finanzia un congresso, una ricerca, uno studio pieno di lucine colorate, forse si aspetta un rientro. E noi giornalisti possiamo garantirlo, questo rientro? Garantirlo forse no, ma non deve essere un caso se gli studi che escono sulla stampa generalista sono i più citati nella letteratura medica. Intendo: il tuo medico ogni mattina compra e legge un quotidiano, poi si fa un po’ di giri in rete e magari a sera vede la tivvù. Le informazioni mediche che incontra così, in un modo o nell’altro, lo influenzano. E quando legge le tue analisi o quando va a disegnare il suo bel protocollo sperimentale tende a usarle. Tanto che in bibliografia gli articoli originali da cui sono nate quelle notizie compaiono più degli altri. Per non parlare dei pazienti, a cui vanno in pasto informazioni magari non false, ma difficili da gestire anche per noi che ci occupiamo di comunicazione. Ci sentiamo un po’ più malati, e tutto fa.
D’accordo, nemmeno stavolta la Julian Assange della comunicazione della scienza ha fatto il colpo della sua vita (non abbiamo detto che non c’è niente di male a esercitare un’azione proattiva sulla comunicazione della salute?) però spera almeno di aver dato un po’ di sveglia ai suoi amici. Come quelle due che, in due giorni, le hanno detto di aver letto su internet di avere malattie gravissime…