Archivio mensile:agosto 2011

Gud prais mai friend: perché io valgo anche se mi paghi poco, tiè.

Non c’era bisogno che ce lo dicesse Mastercard. Ci sono cose che hanno un valore e cose che hanno un prezzo. E cose che hanno sia un valore sia un prezzo, magari un prezzo che dipende dal valore o un valore che dipende dal prezzo. Nel senso che il prezzo è il valore economico della cosa, ma poi ci possono essere altri fattori che le danno valore, come i sentimenti e così via. Mi sto incartando. A questo punto, in genere, chiamo il fratello economista per una spiegazioncina di tre quarti d’ora, da cui esco con idee sbagliate ma esaltanti tipo come risollevare l’economia mondiale e giungere alla pace del mondo in tre mosse. Ma sono di fretta e anche il tempo ha un valore.

Per esempio, una cosa che ha grande valore ma non ha prezzo è il volontariato. Bello, il volontariato. Una cosa che ha un gran prezzo e che non ha valore è, per me, un Suv. Per me, perché non mi piace guidare e poi abito a Roma e con un Suv non saprei che cosa farci. Anche con un cavallo, a dire il vero. Da questo però capisco che il valore è soggettivo, il prezzo no. Infatti quando si è in vacanza e ci si sente liberi di contrattare al mercatino (perché la Lonely Planet dice che è educazione farlo), e quindi il prezzo lo vedi variare lì per lì a seconda dell’acquirente, c’è chi accetta di chiudere la trattativa pagando un prezzo più alto e chi no. Chi paga di più dà più valore alla, poniamo, collanina di ametiste: perché proprio la vuole, perché sarà un regalo bellissimo, perché non vuole perdere tempo, perché ha più soldi in tasca, perché non ne ha mai vista una prima di oggi, perché ha un’amica che la stava cercando disperatamente. Chi vuole pagarla di meno accetta il rischio di non comprarla proprio, e quindi le dà poco valore. Pazienza: o uan dollar mai friend good prais for mi, o niente.

Potrei andare avanti a lungo. Quando lasci il caricabatterie del telefonino a casa e te ne accorgi la sera in albergo. Quando ti risvegli e ti accorgi di aver dimenticato anche il dentifricio. Quando aspetti due ore un autobus notturno che non arriva. Ecco che roba di poco prezzo può diventare ai tuoi occhi di grande valore. Quando invece accendi per errore la tivù il sabato sera succede l’esatto contrario.

Nel mio lavoro, prezzo e valore dell’opera spesso funzionano così. La prestazione, poniamo una puntata alla radio o un articolo su un giornale, ha un prezzo fissato a monte. A dispetto del fatto che mi chiamino libero professionista, non è possibile contrattarlo e non dipende da quanto sono brava e ricercata. Anzi: il mio cliente in genere si fa un punto d’orgoglio del pagarlo a tutti sempre nella stessa misura (guarda, paghiamo tutti così, siamo equi…), che poi è anche un sistema per abbassarlo a tutti, di colpo, senza possibilità di discuterne (guarda, siamo costretti ad abbassare i compensi, lo facciamo con tutti, siamo equi…). Ma il valore che può avere è molto variabile.
Per esempio: se intervisto l’amico mio faccio molta molta meno fatica che a cercare una voce diversa, e se chiamo l’ufficio stampa dell’azienda che mi tempesta di comunicati probabilmente avrò anche qualche dato in più, senza nessuno sforzo. Peccato che nel primo caso faccia un servizio discutibile al pubblico (non è detto: ho amici strepitosi, io) e che nel secondo rischi di fare decisamente male il mio lavoro (è necessario che spieghi il perché?). Potrei giocare alla giornalista d’inchiesta, uscire di casa, fare più interviste, ammazzarmi di telefonate, scovare temi nuovi, situazioni critiche, aspetti loschi, ma chi me lo fa fare? Tanto sono pagata a cottimo, o ad articolo, e non mi è mai successo che al valore che ho dato alla mia opera corrispondesse un premio o una punizione: pagano tutto uguale, a tutti uguale, sono equi, no?! E poi la spesa al supermercato la pago con il prezzo, non con il valore, e dopo un po’ può anche scappare di decidere che il primo è più urgente.

Il punto è che il valore che do io alla mia opera ha un ovvio corrispettivo sul valore che quell’opera avrà per il pubblico, solo che il pubblico non sempre se ne accorge. Che ne sa, il pubblico, di come ho scelto il tema e chi intervistare? Il senso della mia opera potrebbe cambiare i suoi comportamenti, convincerlo a farsi curare una malattia che non ha o a fare qualcosa di diverso da quello che farebbe, ma il senso della mia opera potrebbe non essere corretto. Non vorrei montarmi la testa, ma è più o meno da queste parti che si piazza il valore sociale del mio lavoro e la mia responsabilità. Ed è più o meno dalle stesse parti che si dovrebbe trovare l’attenzione del pubblico al mercato dell’informazione, intesa come servizio alla collettività. Non faccio il medico, ma ho tutto l’interesse a battermi perché i medici possano crescere e lavorare in modo da garantire a me, paziente, un buon servizio sanitario. Per dire.

Ecco: quando si parla di mercato del lavoro dovremmo forse ricordarci che il prezzo del lavoro può essere una faccenda sporca, che poi ti rimproverano sempre di mettere sul tavolo anche quando, insomma, non sta bene (in genere trattasi di dipendenti pubblici che ricevono lo stipendio anche quando vanno in ferie, i depositari del bon ton). Ma il valore del lavoro è una roba di cui dovremmo tenere di conto come collettività, perché è il lavoro di ciascuno di noi che permette alla nostra società di stare in piedi: di avere insegnanti, poliziotti, avvocati, giornalisti, autisti dell’autobus, registi cinematografici, impiegati delle poste e del comune, scienziati e bidelli, ognuno dei quali fa la sua parte in questo mondo. Per questo a tutti noi dovrebbe interessare, al di là di Mastercard, che a tutti noi sia permesso di coltivarlo nel modo migliore che può. Somewhere over the rainbow e così via.
Una banalità: ma se poi pensiamo che in un libero mercato, come quello dell’informazione, un freelance vale quel che riesce a farsi pagare, il fatto che uno di noi accetti di essere pagato poco dovrebbe essere fonte di preoccupazione per tutti, non solo per la su’ mamma e il su’ babbo (e per il fratello economista dal telefonino rovente).

(Domani rientro in Rai. Forse bastava scrivere questo).

 

Il discorso della montagna (di sabbia)

Da un po’ di tempo in qua vado in giro con un saio immaginario e i sandali di cuoio. E a tutti, la sera davanti a una birra o in risposta a una mail imprudente di qualcuno che mi chiede solo come va in Rai?, ripeto come un’invasata predicatrice, che non importa come vada a me in Rai. Perché c’è una questione di sabbia che mi tormenta, una montagna di sabbia, e io con i miei problemi di Rai sono solo un granello, mentre anche tu, figliolo, dovresti cominciare a rifiutare il mondo come sto facendo io. E attacco col discorso della montagna. Per ora questo non sembra aver compromesso i miei rapporti sociali, o forse ho incontrato gente davvero molto paziente. Vediamo che cosa succede se lo scrivo nero su bianco, come se fossi l’evangelista di me stessa.

Il problema, dico io, non è che tutti noi, ciascuno di noi, ha un posto di lavoro con i suoi difettucci: chi ha contratti brevi, chi ha la partita iva e solo un cliente, chi viene pagato la metà di quello che veniva pagato l’anno scorso e così via. E nemmeno che, tra noi seduti intorno a questo tavolino pieno di bicchieri vuoti, c’è quello che non sa come pagare l’assegno alla figlia, quella che abita con le amiche a quasi quarant’anni, quello che va in depressione, quella che non fa una vacanza da quattro anni e così via. Il problema è che il nostro mondo è fatto solo di gente come noi. Che ciascuno di noi è come un granello di sabbia in una montagna di sabbia. Ed è su quella sabbia che stiamo costruendo la nostra società, quella in cui vivremo tutta la nostra vita adulta e in cui cresceranno i nostri figli.

E allora basta lagnarsi per il posto fisso o per un contratto migliore. Perché quando tu avrai un posto migliore, o quando sarai davvero un professionista di successo saldamente cementato al suolo in mezzo ai granelli di sabbia, non avrai guadagnato niente di vero. Perché precario sarà il medico che ti opererà di appendicite e poi scadrà, lasciando la cartella clinica in mano al precario successivo. Precari e incostanti saranno gli insegnanti dei tuoi figli. Precarie e incerte saranno le possibilità di gestione del patrimonio culturale e ambientale. Precarie e fragili saranno la ricerca e l’innovazione. E con la tua stabilità potrai, al più, comprarti l’ultimo modello di smartphone, ah bbello de zia.
Cioè: la nostra collettività sta diventando instabile, sabbiosa, e questo più che danneggiare ciascuno di noi come lavoratori ci danneggia come cittadini. E a maggior ragione ci (vi) danneggia se tra questi granelli di sabbia ci sono quelli che dovrebbero raccontarla, la nostra collettività: insomma quelli che lavorano nell’informazione come me. Perché se raccontassimo bene il mondo (compresi noi stessi) capiremmo che il problema non è solo un contratto che scade.

Tipo: buongiorno, sono una che parla al microfono a centinaia di migliaia di ascoltatori per una cinquantina di euro al giorno, una che potrebbe essere corrotta dalla prima farmaceutica di passaggio con due lire in croce, una che non risponde alla rai, e nemmeno all’ordine dei giornalisti. Una che non può essere sanzionata se fa male il suo mestiere, né licenziata, né controllata… questa è l’informazione che vi offro. Sicuri che non vi interessa saperlo? Io non voglio vivere in un mondo così, ma anche quando sento i vari Danieli Silvestri e Caparezze, e sono due che mi piacciono tanto, non riesco a pensare che la soluzione sia andarsene. Penso che intanto dobbiamo capire che la nostra cittadinanza vale più del nostro conto in banca. E poi dovremmo decidere se ci interessa difendere il nostro paese e il nostro mestiere. A me sì, anche a costo di rimanere col saio e i sandali e senza un lavoro. Ma proprio perché non voglio essere connivente con chi costruisce il mio mondo sulla sabbia comincerò a dire di no ai contratti che sono altre palate di sabbia nelle fondamenta del nostro futuro.

(A questo punto seguono sguardi di commiserazione e si comincia a ridere sul kit per la rivoluzione. Poi qualcuno cambia discorso e chiusa lì. Ma se davvero cominciassimo ad adottare la strategia del lemming, chissà…).

“Che cosa avete fatto al vostro paese?!”: la parola a Ivanka da Bratislava

Non ricordo come si chiami davvero, ma per noi potrebbe essere Ivanka, che poi è il nome dell’aeroporto di Bratislava nonché la badante immaginaria della mia amica P. Forse ha qualche anno meno di mia madre, i capelli tinti di biondo, l’aria matronale e un po’ severa e siede dietro al bancone dell’Ufficio informazioni. Mi ero avvicinata parlandole in inglese, poi, sentendomi dire qualcosa alla mia amica, aveva proseguito lei in italiano. Ed è così che mi parla adesso, con un ottimo italiano vagamente alla Sturmtruppen. Mi racconta, senza che io debba insistere troppo, di aver viaggiato tanto nel mio paese e di avere un figlio che lavora a Milano. Sospira. E poi mi fa ma che cosa sta succedendo al vostro paese? I turisti italiani che vengono da lei non parlano inglese, se non in modo ridicolo e con aria di sufficienza. Non parlano tedesco, figuriamoci, e pretendono di essere capiti nella loro madrelingua. Se così non succede alzano la voce e magari si indignano anche. Quando lei ha a che fare con loro (perché dell’ufficio è Ivanka quella che ha l’italiano migliore) le sembra di avere davanti dei minus habens: gente che non sa ascoltare le risposte, non sa porre le domande, non sa capire come comportarsi. Sono ignoranti, dice Ivanka, ignoranti e cafoni. Ed è stupita perché ha l’impressione che in passato, quando lei l’Italia l’amava tanto e ci veniva in treno per vacanze di gran lusso, non fosse così.

Imbarazzata, le chiedo del figlio. Che cosa ci fa a Milano, il figlio di Ivanka? Il neurochirurgo. Sì, il neurochirurgo. Si è laureato in Slovacchia, a prezzo di grandi sacrifici, poi è entrato in specializzazione in Italia, perché è bravo. E ora è lì, ma sta meditando di fuggire. Dove? In Portogallo, dice Ivanka dispiaciuta: in effetti, lei il portoghese non lo parla, almeno per ora, ma lui ha buoni contatti e lo assumerebbero subito. Perché in Italia non lo fanno operare, come se volessero impedirgli di imparare davvero la neurochirurgia, e poi lo pagano troppo poco, anche quando si fa le guardie di notte. Ma come si fa a vivere a Milano, a trentacinque anni, con mille euro al mese?! Sorrido, imbarazzata. Questo ragazzo è venuto dall’est nei panni di ragazzo povero ma brillante, ce lo siamo comprati con niente, e ora che è neurochirurgo lo regaliamo al Portogallo per mille euro al mese. E Ivanka mi guarda: l’università italiana per uno slovacco era un traguardo importante. Mandarci un figlio: che sogno. Ma dopo?

E tu che fai? Mi chiede. Ho la stessa età di suo figlio, suppergiù. Dico che anch’io ho studiato medicina e che conosco bene la faccenda del chirurgo che non opera. Le spiego che però adesso faccio la giornalista scientifica e che lavoro alla radio nazionale. Bello, brava, mi dice. E quanto guadagni? Mille euro al mese, per servirla. Ma Ivanka, senza offesa, io in Portogallo non ci voglio andare. Io lavoro con le parole e le quattro lingue straniere che mescolo confusamente nel mio grammelot da ragazza dell’Europa non mi permettono di fare davvero il mio lavoro, e di farlo bene, in un paese che non sia il mio. E allora che farai, e che farete? Non lo so, Ivanka. Noi eravamo ricchi, eravamo abituati a vedere quelli come tuo figlio arrivare da noi come noi un tempo noi andavamo in America, spaesati e ambiziosi, in un paese che ci dava benessere e possibilità. Adesso non siamo meno ricchi, forse, ma di certo non capiamo il valore delle cose. Come i turisti che vedi tu ogni giorno, quelli che ridono sguaiati di fronte a una cortese impiegata slovacca che parla correntemente slovacco, tedesco, inglese e francese e pretendono di parlarle in italiano. Si coprono di ridicolo, pensano di essere simpatici: potrebbero essere ovunque nel mondo perché con un’unica lingua in tasca è come se non partissero mai. Intanto tuo figlio fa le valigie e continua il suo viaggio verso ovest, perché il suo lavoro è prezioso e lui lo sa. Eccome se lo sa.