Archivio mensile:Maggio 2011

Io e l’università siamo in pausa di riflessione

Università: io ci provo, eh. Lo so che per te è un momentaccio. Che bisognerebbe incoraggiarti e farti pubblicità. Dire che sei il tempio della cultura e il luogo della conoscenza. Ci provo. Ma lo sai che gente ti abita? Ti sei fermata a osservare da vicino le dinamiche di quelli che si fanno belli col tuo nome? Quando ti frequentavo era facile diventare insofferenti: mi sembrava di vivere in un incubo della Moratti, con le prepotenze stupide, il nonnismo spicciolo, i giochetti, gli scambi, che noia. C’era anche gente in gamba, tanta gente in gamba, ma in genere contava pochissimo. Adesso ti frequento ogni tanto da esterna, perché i tuoi abitanti mi invitano ad assistere alla loro decadenza. E il brutto è che invece pensano di aver organizzato un evento per il grande pubblico, che segnerà l’inzio di una rinnovata attenzione verso di loro.

Funziona così: mi chiamano e mi chiedono la disponibilità, spiegandomi che è un evento dell’università, magari con un po’ di patrocini e collaborazioni. Tanti nomi. Non mi possono pagare, occhei, oppure mi danno un minimo gettone di presenza da cui devo sottrarre il biglietto del treno. Però è un evento importante, il primo di una serie, e i soldi arriveranno. L’università, le scuole, la ggente: via, abbi un po’ di cuore…
Poi mi danno il titolo: incomprensibile. E quando faccio notare che non si tratta di un evento così appealing per il grande pubblico, almeno non così tanto come loro credono, si stupiscono. Ma come: il pensionato e lo studente non muoiono dalla voglia di entrare in un’aula universitaria a sentire un prof emerito di settant’anni parlare di quellarobalì?! Imbarazzata, non insisto. Poi mi dicono che non importa che parli coi relatori: si sono già messi d’accordo e hanno fatto loro una scaletta. Quando riesco finalmente a farmela mandare, la scaletta, scopro che non hanno considerato il fattore tempo (e in questo caso si sono preparati l’intervento ignorando candidamente che prima o poi dovrebbe andare a conclusione) oppure che si sono assegnati un arbitrario cinque minuti a testa, come se fosse un assemblea di circolo.

Vado lì e trovo quattro persone nel pubblico: se mi va male, il numero dei relatori intanto è cambiato e nessuno ha pensato a dirmelo e se mi va malissimo quel numero è adesso pari a quello delle persone nel pubblico (quattro, cinque, sei al massimo). Tocco il fondo del baratro dell’imbarazzo (e comincio a incazzarmi) quando scopro che il pubblico è composto da amici dei relatori, competenti quanto i relatori e desiderosi di farsi una bella chiaccherata affondati nelle poltrone rosse di un’aula universitaria, piuttosto che davanti a un gelato, per cui sono completamente indifferenti alla mia persona.
Tra l’altro, essendo io palesemente di sesso femminile e con meno di sessant’anni, non riesco quasi mai a farmi notare dall’universitario che dovrei moderare, che continua a far finta di non vedere i miei cenni disperati di tenersi nei tempi o se ne frega della domanda che gli pongo. Al più butta un occhio nel mio scollo, massimo segno di attenzione a cui posso ambire. Per il resto, non esisto e di certo non posso dirgli una cosa impertinente come tre minuti alla fine.

Ovviamente, si finisce molto più tardi del previsto, perché dalla platea si alzano a fare domande in un clima festosamente anarchico. A volte, se le cose non girano troppo male, mi viene anche da ridere: avete visto come tiene il microfono l’universitario prototipico? Lo afferra distrattamente con la mano destra prendendolo da quella della hostess. Lei, poveraccia, si è precipitata a passarglielo mentre lui stava beatamente parlando senza curarsi del volume della propria voce, immergendo tutti in un bell’effetto-pesce. Avevamo gli occhi strizzati: che cavolo dice?… sssssssshhhttt… non si sente…. Quando lei, cortese e silenziosa, si era precipitata a risolvere la faccenda. Solo che l’universitario lo prende, sì, il microfono, ma non ricomincia la frase e, anzi, continua a parlare agitando lo strano oggetto come se fosse una bandierina. Lo tiene stretto in mano ma non se lo avvicina alla bocca, a volte abbassa il braccio e lo lascia ciondolare vicino al ginocchio, sennò lo muove per aria con impeto oppure lo allontana dal corpo allargando le spalle. E poi lo restituisce alla hostess, convinto di aver entusiasmato la platea col suo discorso.

Alla fine ti dicono che è un peccato che sia venuta così poca gente da fuori università: era tanto un bell’incontro. Ma sono loro che non capiscono: loro, quelli di fuori. E anche quelli dei tiggì, che non hanno fatto pubblicità all’evento (sic). L’universitario proprio non capisce che l’errore può essere suo. Una volta, a Pisa (novantamila abitanti per tre università) c’è stato chi mi ha detto che il problema è che Pisa è una città poco ricettiva.
Ma il peggio arriva al momento dei pagamenti (o dei rimborsi). Quando ti chiedono moduli di altri pianeti, ti fanno firmare prese di incarico e formulari per impiegati statali, giuramenti e articoli di legge che boh. Ti fanno scrivere da una segretaria che ignora l’esistenza di essere umani dotati di partita Iva, ti fanno aspettare secoli, ti timandano indietro venti volte la fattura, ti chiedono curricula e strani dettagli sulla tua vita. E poi non ti pagano.
All’ennesimo sollecito i soldi arrivano. Se hai culo, corrispondo pure all’importo esatto. Ma datti tempo e sta’ pure certo che l’anno dopo si dimenticheranno di farti mandare la certificazione del pagamento.
Ah, università. Te l’ho detto che in linea teorica io giocherei dalla tua parte. Però capiscimi: la tentazione di prendermi una pausa di riflessione sta cominciando a farsi sentire.

Chissenefrega dell’amore: per una gretta contabilità del matrimonio

Mi serve un contabile cinico. C’è, in giro, un contabile cinico? Perché quando si parla di matrimonio si tira sempre fuori quella palla dell’amore? Ma insomma, non c’è qualcuno capace di fare due conti seri e di capire se conviene, alla società, impedire che due si sposino? Perché ho il sospetto che più gente si sposa e meglio stanno anche gli scapoli. E tutti gli altri. Cioè che le casse mie e quelle dello stato sarebbero in condizioni migliori. O almeno, che ci sarebbe un po’ più di ricchezza in giro, anche se non saprei dire in quale forma. C’è un contabile cinico che possa fare un calcolo asciutto del beneficio sociale del matrimonio?

Perché a me sembra che funzioni così:
Quando due si sposano assumono un impegno reciproco al sostegno economico e materiale, e se ci sono figli di mezzo l’impegno vale anche per loro. Ah, sì, belli i fiori d’arancio, bello vestirsi bene, bello ubriacarsi coi compagni di scuola, bello rivedere le foto il giorno dopo e scoprirsi due occhiaie così. Ma ancora più bello pensare che quei due lì hanno stipulato un contratto tra loro e che se uno dei due dovesse avere problemi di soldi o di salute ci sarà l’altro, obbligato dal vincolo matrimoniale e dalla morale, a sostenerlo. Bello sì: si legano l’uno all’altro e un po’ è come se si levassero dalle palle del nostro welfare sgangherato. Se poi contravvengono a quel vicolo, l’altro avrà il giudice e il tribunale a far valere il senso di quel contratto. Sbaglio?

E allora perché non incoraggiare la gente a sposarsi? Ma tutti, eh. Cioè: perché non far sì che tutte le coppie che si amano, comunque siano composte, maschi, femmine, mezzemmezzi, alberi da frutta, comodini, ghepardi o quaqquaraqquà, vadano di fronte a un pubblico ufficiale a promettersi amore eterno? A noi cinici non ce ne frega niente del loro amore: ci importa la ricaduta economica e sociale del loro gesto. E, se ci conviene, perché stare a rompere le balle a loro senza guadagnare niente noi?

Ecco. Quando sento in giro la gente per bene dire che il matrimonio omosessuale no o anche va bene il matrimonio, ma l’adozione no trovo che illogici e cinici siano loro. Ma che gliene frega? Che cosa ci guadagnano? Datemi un contabile e vedrete come vi dimostrerò che impedire a due persone dello stesso sesso di sposarsi, oltre che sgradevolmente anacronistico, impiccione e pure un po’ cattivo, sia profondamente stupido. Don Rodrighi 2.0, mi spiegate che cosa ci si guadagna a curiosare nelle famiglie altrui?

(Questo post arriva un po’ in ritardo, lo so. Però intanto l’ho sperimentato: l’argomento denaro con gli omofobi funziona abbastanza… Perciò ecco il mio modesto contributo al dibattito. Dopo mi arrabbio).

Pasqualina quattroricchezze in “quando cavolo avete intenzione di pagarmi?”

Oggi è il 15 maggio. Dall’inizio dell’anno ho fatto quattordici fatture. Me ne hanno pagate cinque.
Mi sto sforzando di adottare il pensiero buono della domenica mattina: quattordici fatture in quattro mesi e mezzo! Ma che brava, ma che vera piccola imprenditrice, ma che fior fiore di partita Iva, ma che grande lavoratrice, ma che…
Solo che a prevalere è il pensiero omicida di metà trimestre: mavaffaculo! Due fatture su tre non sono ancora state pagate: mo’ vengo lì e te meno.
Per chi non ha presente il sistema, lo spiego in rima: un libero professionista a ogni fine trimestre paga l’Iva sulle fatture che ha emesso. Se i soldi non sono arrivati, pazienza, lui l’Iva la paga lo stesso.
Come dire che non solo ho lavorato aggratis, ma ho anche dovuto pagare. Becco e bastonato, si dice dalle mie parti.
E allora le guardo una per una, queste nove fatture orfane. Una era sbagliata, l’ho dovuta rifare qualche giorno fa. L’avevo emessa a metà marzo e dell’errore mi hanno detto solo adesso. Ma insomma lo sbaglio era mio, non posso lamentarmi. Quattro sono allo stesso cliente, che poi è gente di cui mi fido: sai che bello quando quei soldi arriveranno tutti insieme! Altre due sono a un altro cliente ed entrambe emesse ai primi di febbraio. Ho già sollecitato e nessuno ha risposto. Manderò un’altra mail: ma insomma, è un ente pubblico, i tempi sono quelli che sono. Due le ho emesse solo un paio di settimane fa: devo dare il tempo di farle sedimentare.
Il risultato è che stamani vorrei tanto essere un’impiegata delle poste.

Perché a fare questo lavoro in questo modo (l’unico che io conosca, del resto), ci si sente ricchissimi. Non intendo ricchissimi dentro: non sto parlando di cultura e men che meno di interiorità. Intendo proprio ricchi, pieni di soldi. Una prima volta quando ti propongono un lavoro o ti cercano per farti fare qualcosa, e tu chiedi se e quanto sarai pagato, e la risposta è affermativa e incoraggiante: wow. Una seconda volta a lavoro finito, quando consegni o quando torni a casa o quando finisce il contratto: e questa è fatta! Ti senti ricco per la terza volta quando fai fattura. E poi le fatture le conti, come da piccoli le figurine: ne ho già quattordici! Anche l’anno scorso, oggi, ne avevo quattordici, e ho finito l’anno a ventinove: vediamo se quest’anno arrivo a trenta! Infine c’è la quarta volta, in cui ti senti ricco davvero, perché finalmente arrivano i soldi.
Basta non fermarsi a pensare che per quel lavoro, proposto sei mesi prima e svolto quattro mesi fa, hai ricevuto seicento euro lordi. Lordi. Quindi poco più di trecento. Nel frattempo ne hai fatti altri cinque o sei, di quei lavori lì, mica venti. E te ne hanno pagati la metà.
Basta non fermarsi a pensare la domenica mattina. Basta non aprire il sito dell’home banking a mezzogiorno di una domenica primaverile. Basta non ricordarsi che anche oggi passerai un paio di ore al computer su un lavoraccio infame da consegnare entro -10 giorni. Basta questo. E le mie quattroricchezze da free lance, l’impiegata della poste, se le sogna…

(Dimenticavo: ci sono due lavori che ho fatto tra gennaio e marzo per i quali non mi hanno ancora nemmeno chiesto fattura. Che faccio, scrivo? O rischio di fare la figura della rompipalle che non sa aspettare?).

Teremoto de Roma: er dei after

Se sei giornalista scientifico, la gente ti fermava nei corridoi: è vero che l’11 maggio Roma sarà distrutta da un terremoto? Decisamente improbabile, perché… Eppure lo dicono in tanti… Che c’entra: anche le mosche sono tante e mangiano… Beh, ma la mia collega ha già prenotato in un agriturismo fuori Roma. Ah, beh, certo, perché se il terremoto distrugge Roma secondo te a Frosinone… Sai che? Per non correre rischi, metto subito una bottiglia e una coperta in macchina. Anche il caricabatterie di riserva, la torcia…

Poi le acque si sono calmate. Sarà stato il terremoto giapponese, che ci ha ricordato che su certe cose non si deve scherzare. Sarà che anche le bufale, come le campagne elettorali, se hanno una rincorsa troppo lunga poi gli vien l’affanno. Sarà come sarà, pochi tra quelli che mi fermavano nei corridoi hanno davvero raggiunto la collega fuoriporta o l’odiata suocera nelle Marche. Tra gli altri, boh. La città era effettivamente un po’ più tranquilla, ma niente di postatomico, all’Esquilino i negozianti cinesi hanno deciso per la serrata, al ristorante di Sonia mi sono seduta subito. Ma insomma in metropolitana c’era sempre il solito casino. Anche quella del romano impanicato era un po’ un’esagerazione: la bufala della città sconvolta dalla bufala.

Così ieri a Roma sembrava che la gente si guardasse con soddisfazione: non ci siamo caduti, noi, eh. Poi, verso le sette, la notizia. A Roma niente, ma in Spagna… Un sisma di magnitudo 5,2 che ha causato otto morti. In Spagna. Cinque virgola due. Va bene: anche oggi ci ho fatto un pezzo di puntata. Ma il prossimo che mi ferma nel corridoio e mi dice Hai visto? Il terremoto c’è stato lo stesso, solo spostato un po’ più a ovest lo mordo.

(by the way: so tutto del terremoto dell’11 maggio, come è nata la bufala e perché. Ma non lo dirò mai).

Diciamo no al volontariato: perché non si deve mai lavorare gratis

In genere è un signore in pensione, colto, elegante, curioso, anche simpatico. In genere ha letto il tuo nome su qualcosa di lusinghiero, oppure ti ha ascoltato in una delle tue performance radiofoniche migliori. E in genere ti manda una mail carina in cui ti invita a un evento intelligente più spesso di venerdì sera o di sabato pomeriggio, in una città di quelle che lì per lì puoi anche pensare che valgano un viaggio. Ed è così che ti frega. Il pensionato di buona volontà riesce sempre a farti lavorare gratis. Ti spiega che tutti i partecipanti all’evento vengono senza essere pagati perché l’organizzazione è di un piccolo circolo culturale, molto attivo, che ha il patrocinio del comune ma che lavora solo su base volontaristica e che quindi purtroppo non ha di che pagarti. Tu vorresti fargli notare che lui tutti i mesi prende una pensione garantita, mentre tu tutti i mesi non prendi un bel niente se non ti sbatti a recuperare euro per euro i soldi che ti devono i tuoi quaranta clienti, di cui trentotto morosi. Che è facile fare del volontariato culturale se si passa la vita tra la biblioteca del paese e il cinema d’essai sotto casa, senza un cavolo da fare tutto il giorno, e col conto in banca costantemente foraggiato dall’Inps. Ma che lo è molto meno se fai un lavoro come il mio, che a lui pare un po’ troppo simile a un hobby ma che hobby non è. Vorresti farglielo notare, ma l’unica frase che ti esce è un debole sa, io lo farei di lavoro… non posso impegnare la mia agenda lavorativa per cose che non mi portano un euro in tasca… Ma alla fine vince sempre lui. E ti rimane anche la sensazione che un po’ abbia ragione: nel nostro paese, nelle nostre province, è bello e giusto che ci sia qualcuno come il pensionato di buona volontà, che si sbatte per portare un po’ di aria nuova a gente che altrimenti avrebbe poche possibilità di vedere il mondo là fuori. Un po’ ha ragione, eh sì. Ma cavolo, invece di regalarmi un enorme mazzo di orchidee e i tramezzini avanzati dal buffet, avrebbe potuto allungarmi un paio di euro e chiuderla lì.

Poi ci sono quelli che ti chiedono un contributo per un libro. Gratis, si intende, perché non ci sono nemmeno i soldi per pagare l’editore (si chiama tipografo, in quel caso, ma vabbè) figuriamoci per pagare chi ha scritto cinque paginette timesnewroman12. Figuriamoci. Tanto tu hai già scritto altre volte di quella cosa: ti verrà facilissimo farlo di nuovo, ovviamente senza copiare. Va a finire che lo fai, con il minimo dell’impegno. Anzi no, pensi: se ci deve essere la mia firma, sarà bene che lo rilegga. E alla fine hai scritto cinque pagine e nessuno te le pagherà mai. Anche perché probabilmente nessuno le leggerà mai.
Infine ci sono quelli che  se si risparmiano un biglietto del treno è meglio: già che sei da queste parti, fai un salto da noi così facciamo riunione? Ci sono quelli che non ti pagano e ogni volta ti promettono che lo faranno, e tu continui a scrivere per loro perché in fondo è una buona vetrina. Quelli che ammettono candidamente da subito che non ti pagheranno mai, e tu apprezzi l’onestà. Quelli che ti contattano loro, però poi ti chiedono di fare una prova (una prova?!), ovviamente non pagata, quelli che ti chiamano a un colloquio ma non ti pagano il treno, quelli che ti scrivono chiedendoti consigli o facendoti proposte di lavoro così confuse non ti accorgi nemmeno che non si fa nessuna menzione al vile denaro. Quelli che hanno avuto un’idea, quelli che hanno finalmente capito che cosa fare da grandi, quelli che hanno organizzato il congresso della loro vita. E tutti ti vogliono coinvolgere perché ti stimano un sacco, ma non ti possono pagare.

Credo che sia arrivato il momento di dire no al volontariato. No. Per me, perché anche se è vero che il mio lavoro assomiglia a un hobby, e a volte si tratta di fare cose divertenti che farei anche per niente, non posso svendere quel che faccio. E’ il mio lavoro: me lo sono praticamente inventato da me ed è la cosa più preziosa che ho. Devo rispettarlo, accidenti.
E poi no per tutti gli altri. Perché chi lavora gratis rovina il mercato. Se lavori gratis, chi ti fa lavorare sceglierà sempre te solo per questa ragione. E quindi tu non migliorerai e produrrai cose sempre mediocri, la tua professionalità e il lavoro che svolgi saranno svalutati, i tuoi colleghi non riusciranno a farsi pagare e la qualità del lavoro si abbasserà. Pensa al giorno in cui, bravo professionista, ti preferiranno un pivello che accetta di fare l’eterno stagista e di lavorare (male e) gratis al posto tuo.
Ti auguro allora di scoprire che il suddetto pivello è figlio del pensionato di buona volontà, il quale, mentre ti accompagnerà con la sua macchina a prendere un regionale di seconda classe per le tue tre ore di viaggio di ritorno, si lancerà in una filippica sui guasti della precarietà e sul suo povero figliolo che a trent’anni bisogna ancora passargli i soldi dell’affitto. E allora capirai che prima di mandare a quel paese il vecchietto faresti bene a farti un bel cazziatone allo specchio. Ma bello, eh.

[Questo post è dedicato a tutte le persone che in questi giorni mi hanno detto di aver accettato lavori gratis (o di essersi proposti in prima persona per farli!). Una pacca sulla spalla, ma anche una nota di biasimo. Non si fa, ragazzi, non si fa.
Questo post è dedicato anche al professore universitario in pensione che ha scritto a Repubblica per dire di aver accettato la richiesta da parte della Facoltà di continuare a tenere lezioni gratis, e che si lamentava di non avere il rimborso della benzina. Se fossi nei panni di uno dei suoi studenti, destinato a una carriera da eterno assistente precario, credo proprio che gli taglierei le gomme].