Archivio mensile:gennaio 2012

Alice nel paese del giornalismonormale – Impressioni del giorno dopo

Beh, che cosa mi aspettavo? Che qualcuno avrebbe alzato il ditino e… Come cavolo hai fatto a parlare per venti minuti o giù di lì di cambiamenti climatici, a raccontare Durban, intervistare Pachauri e i contestatori, e a non nominare mai, mai, il protocollo di Kyoto?
Cioè. Io pensavo che tutti l’avessero sentito almeno una volta nella vita. Che ci fosse una dimestichezza generalizzata di livello zero con la cosa, tipo: boh, cioè, è tipo un accordo internazionale, cioè, tipo per abbassare l’inquinamento. Ecco: pensavo che una cosa così potesse dirla il meno scolarizzato di noi, uno alla Lorenzo di Avanzi. E invece evidentemente no. Ingenua.
Così me lo hanno fatto togliere.
Però evidentemente non serviva nemmeno. Così nessuno oggi, nemmeno il più rompipalle dei colleghi, lo ha notato.

Cioè, hanno notato quasi tutto: il blocco degli appunti di Radio3 (sentimentale…), il maglione con il cappuccio storto, il viso lucido e sudato, la sciarpa di alpaca, il gelo in laguna di Venezia. Sembra che sia stata osservata in tutti i modi. Una mia amica sorda ha persino notato che mi sono rivolta a una persona toccandola, come faccio per parlare con lei e, per estensione, con suo marito (udente) e con tutti i nostri amici, che siano sordi o udenti non importa. Una zampata sul braccio.
Ma l’assenza di Kyoto no, non l’ha notata nessuno. Che strano.

E nessuno mi ha detto niente dell’inizio della puntata. Questa era una cosa per palati fini, ma i palati fini in genere sono anche dei gran cacacazzi, e invece.
Perché, vista dal mio divano, la cosa suonava così: zanzanzanzanzan (sigla), due mesi dopo (!) il terremoto dell’Aquila qualcuno ha rivelato che quel terremoto era previsto (“tutta la comunità scientifica sapeva che stava arrivando!”) eppure, colpevolmente, si è deciso di non fare niente, zanzanzanzan…
Segue presentazione della nuova redattrice specialista di scienza.
Io, minimo minimo, a quella nuova redattrice avrei mandato due righe di mail dicendo ma tesoro mio: com’è che avete aperto la puntata così? cioè: avete verificato la fonte? vi siete mica imbattuti in qualche prova di quel che è stato detto? avete fatto due telefonate di sicurezza? e avete mica cercato di capire un po’ meglio quel che è successo e quel che succede lì? ma soprattutto: era proprio necessario? non pensate che sia un messaggio poco corretto da dare agli spettatori, tanto più che poi parlavate d’altro?
E quella nuova redattrice di scienza si sarebbe trovata in difficoltà: già ce la vedo. Avrebbe risposto balbettando, poi avrebbe girato le mail al capo, avrebbe avuto paura di fare la parte dell’impertinente e soprattutto avrebbe cercato di cancellare quell’enorme ve l’avevo detto, io! che a quel punto le sarebbe spuntato a lettere cubitali sulla fronte e che sarebbe stato poco opportuno mostrare ai nuovi colleghi.
E invece.

Quando facevo le mie cosine alla radio il cacacazzi non mancava mai. Piuttosto ti correggeva l’ortoepia. Piuttosto sbagliava di grosso. Piuttosto parlava d’altro. Ma le pulci me le faceva sempre. Quando faccio le mie cosine alla tivvù il cacacazzo scompare.
Ho un naso perfetto, lo so, modestamente. Sorrido in modo grazioso, a volte. Non sono precisamente una cozza, anche se mi vesto un po’ come viene e non mi so truccare. Ma cacacazzi, vi prego: tornate. Non fatemi sentire sola. Non fatemi pensare che alla tivvù basti un bel faccino per farsi perdonare le facilonerie e distrarre le masse.
O almeno fatemi qualche domanda: perché tutti quei pesci e nemmeno un albero? perché a Durban non hai intervistato nemmeno un europeo? perché c’è un barracuda in laguna?!
Adesso è troppo tardi (eh… dai). L’unica che mi ha fatto una domanda intelligente è stata la solita amica. Dice come hanno fatto a sconfiggere la terribile epidemia tropicale in provincia di Ravenna? Brava, grazie per la domanda. Ho la risposta. Lo avevo chiesto ma poi ho dovuto tagliarlo. Tagliarlo, come Kyoto e come l’immagine di un paio di scarpe che vi avrebbe sicuramente fatto discutere moltissimo.

Rivoglio i miei soldi: riusciamo a non farci fregare dai rimborsi?

Io adoro la mia commercialista. Toglietemi tutto ma non lei. L’ho persino invitata a Roma, a casa mia. La mia commercialista è il mio nuovo supereroe. Perché mi fa passare gli incubi, tipo quello dei rimborsi. E lo fa con un tono perentorio che sembra uno della capitaneria di porto, ma le cose me le dice in pisano. Rassicurante.
Primo: mettersi d’accordo col cliente. Il viaggio è a parte? E i pasti? Bene.
Secondo: si aprono due possibilità. Anzi tre. La terza è: quello mi ha detto che pago tutto io, quindi niente rimborso, quindi stiamo uscendo fuori tema, quindi bisogna farsi pagare di più per ammortizzare i costi.
Altrimenti posso avere una diaria, o un anticipo, o un forfettario (per esempio, 50 euro al giorno per i pasti): situazione numero uno. Oppure posso presentare le ricevute delle spese a parte, dopo: situazione numero due.
In entrambi i casi, mi spiega la commercialista, le spese finiscono in fattura.
Però in posti diversi. E, attenzione, si corre il rischio di pagarci le tasse due volte.
Dici: banale. Dico: mica tanto.

No, perché io forse a volte mi sono fatta fregare subito al primo passaggio: non mi sono messa d’accordo per bene. Ma ho scoperto che ci sono colleghi che sistematicamente sommano le spese ai compensi, tutte le spese, finendo per rimetterci un sacco di soldi.
Dici: beh, babbei. Dico: no, vittime disattente di un impiegato stupido (nel senso scientifico del termine) e prepotente, che impone loro di fare fatture più facili.
Invece.
Un compenso fa reddito, quindi deve essere tassato. Un rimborso no: non è reddito. Ho speso cento di treno e cento devono rientrare, senza che ci debba pagare di nuovo le tasse (e la pensione!), anche perché sennò me ne rientrano cinquanta. Però il rimborso deve essere documentato: ci deve essere il biglietto con il nome, la data, il prezzo e tutto quanto. A quel punto, si scrive il prezzo in calce alla fattura, si somma all’imponibile e quelli sono i soldi che il cliente deve versare (ma poi noi, grazie alla fantastica commercialista, pagheremo le tasse solo sull’imponibile). Se le spese non sono documentate perché si è avuto un anticipo (o ci daranno una diaria a forfait), quelle invece fanno reddito e devono sì essere sommate ai compensi. Più iva, meno ritenuta d’acconto e vai con liscio.

Che cosa c’è di facile in una fattura in cui si trasforma in imponibile quello che imponibile non è? Niente. Ma vaglielo a spiegare. Che poi la mia commercialista è anche una che fa le telefonate per me: se non riesco a spiegarglielo io, all’impiegato che cerca di farla facile, ci riesce benissimo lei. Grida articolo 15 del dpr 633/72! E quello si cheta.
Invece noi qua a combattere con la stupidità (scientifica, si intende).

L’altro giorno, mentre consegnavo le ricevute dei rimborsi all’addetto preposto (guai a consegnarle a un addetto non preposto), quello stava chattando doppio. Aveva due finestre  aperte sullo schermo del computer e lo sguardo fisso lì: ping pong ping pong, tra quella di destra e quella di sinistra. Se una delle mie ricevute, che io gandhianamente sfogliavo accanto a lui cercando di non deconcentrarlo, cadeva sulla tastiera, lui la scansava con un mignolo e andava avanti a chattare, senza muovere di un grado la testa verso di me.
Gli ho chiesto: a chi devo presentarle le ricevute per avere i rimborsi? Ha alzato una spalla e mi ha detto di chiederlo ai colleghi.
I colleghi mi han detto di metterle in fattura, sommandole ai compensi. O addirittura di fare una fattura a parte: la fattura compensi. E io ho chiamato la commercialista, la supercommercialista, che mi ha tranquillizzato. Almeno finché non inciamperò di nuovo in un addetto preposto che cerca di facilitarsi la vita complicando la mia.
Magari, chissà, la supercommercialista un giorno verrà davvero a trovarmi da queste parti e allora le farò conoscere i personaggi che le racconto al telefono. Ah, certo: se verrà sarà a spese sue, si intende.

Fatture, bollette, contabilità e le altre ragazze del mucchio

La piccola Marcegaglia della comunicazione della scienza stamani resta a casa. Deve riordinare la contabilità: il trimestre è finito e lei, gonfia di rassegnato orgoglio per il suo lavoro così bello e tedioso insieme, aprirà il computer e chiamerà accanto a sé la contabile dell’ombra di se stessa.
Avanti.

Ci sono le mie fatture. Facile. Dalla 24 alla 32. Rileggerle e verificarne date e numeri. Sono corretti? Speriamo. Vanno solo stampate: segnarlo tra le cose da fare domani.
Ci sono i rimborsi per la Rai, la mia nuova croce. Dividerli trasferta per trasferta, (mettere tra le cose da) fotocopiare le ricevute di alberghi, ristoranti e spostamenti. Le fotocopie finiranno alla Rai, gli originali alla commercialista. Attenta a non confonderti e imbusta ogni viaggio in una busta a parte. Compilare il modulone. Anzi: i moduloni. Contare tutti i pasti: che si fa? Dove ho mangiato? Lo scontrino? Come ci ero arrivata all’aeroporto? Dove sarà la ricevuta del taxi? E chi se lo ricorda?
La piccola Marcegaglia e la contabile della sua ombra non si scoraggiano. Capita a tutti di sbagliare e poi pazienza per questi venti euro. O quaranta. Pazienza lo stesso. Pazienza.

E ora le utenze. Le bollette, cioè. Sicuramente ne manca qualcuna. Però, guarda che brava, stavolta quella del condominio è qua. Alcune bollette sono domiciliate, altre le pago online. Allegare ricevuta. Ops: quella della Telecom non è stata pagata.
Fare finta di niente e mettere tutto in un’altra busta. L’ottava, per adesso. Pagare pagherò domani.
Le altre spese: le lenti a contatto (andranno nell’Iva o nell’Irpef? Boh, mai capito), l’affare del computer, il telefonino nuovo. I miei viaggi. I miei ristoranti. Questa fattura è sbagliata: c’è ancora l’indirizzo di casa dei miei. Scrivere una mail e farla rifare.
E questa roba che cos’è? Dal fondo del cassetto sono saltate fuori quattro certificazioni dei compensi del 2010! Fare finta di niente e allegare alle cose da consegnare alla commercialista.
I diritti d’autore. Avrei dovuto stampare quella mail? E non devo consegnarli a fine anno, piuttosto che a fine trimestre? E se fine anno e fine trimestre coincidono?
Tirem’innanz.

Arriva il momento del controllone bombosparone del filone excellone, quello con i lavori fatti, con accanto il relativo numero di fattura, con accanto le note (farsi rimborsare treno, non accettare mai più lavori, referente G.F. detto bruttamerda) e accanto la data del pagamento. A ogni lavoro deve corrispondere una fattura a cui deve corrispondere un pagamento. Verificare sul conto corrente affari (quello da cui ogni tanto pago il mio unico dipendente, cioè me stessa, attraverso un giroconto sul conto corrente denominato personale: il massimo dell’onanismo elettronico).
Non è così? Non c’è il pagamento?! Si principi a scrivere una mail cortese ma ferma in cui si sollecita il pagamento. Eccheccazzo.

La piccola Marcegaglia e la contabile della sua ombra adesso hanno accanto un bodyguard pelato pronto a menare le mani. Gentile cliente, sto chiudendo la contabilità e non mi risulta il pagamento della fattura… Il bodyguard si scrocchia le dita, la contabile si accorge di un altro erroretto e tace per amor di pace, la Marcegaglina dà ordine di attaccare con un’altra mail: gentile università, posso finalmente fatturare quel cacchio di lavoro che ho disgraziatamente accettato in un momento di horror vacui e che…
Qui, insieme alla Marcegaglina, alla contabile e al bodyguard, arriva pure l’infermiere di psichiatria a farmi compagnia. Va bene, faccio la brava, cancello le parolacce. L’infermiere mi guarda benevolo, la contabile china la testa, il bodyguard si gratta la testa e la Marcegaglietta ha uno sguardo piccato.
Forse, quando cominciamo a essere in quattro, è arrivato il momento di fare pausa.

Il mio cliente è un ectoplasma. Storia di Paola che lavorò, inseguì, vinse e poi pagò.

Copincollo una nota della mia amica e collega Paola Roli, che fa più o meno lo stesso mestiere mio.

Ho ricevuto un avviso di pagamento.
Mi sono messa a piangere e non ho ancora smesso.
Cinque anni fa feci un lavoro per il quale mai mi pagarono i 1.500 euro dovuti. Andai da un avvocato, facemmo causa, il giudice di pace mi diede ragione. Ci furono un pignoramento e due aste, ma nulla venne venduto. Mi dissero: è andata così, mica si vince sempre nella vita. Sulla carta, tuttavia, c’era scritto che avevo vinto io.
Un giorno, a quattro anni dal misfatto, mi arriva un avviso di pagamento dell’Ufficio Vendite Giudiziarie che dice che per il loro disturbo (pignora, fai l’asta, rifalla, insomma: un sacco di movimento) devo loro 380 euro. Stamane mi scrive anche l’Agenzia delle Entrate: per “la registrazione della sentenza” a me favorevole (evidentemente un altro bell’incomodo: sai portare in giro tutte quelle carte?), a loro devo invece versarne altri 340.
Ricapitolando: non solo non ho mai avuto i miei 1.500 euro, ma ho dovuto pagarne ulteriori 720.
720 euro è esattamente quanto guadagno ora in un mese.
E allora vorrei sapere con che cuore io per un mese mi alzerò tutte le mattine e lavorerò fino a sera per NIENTE, perché il frutto di tutta la mia fatica andrà versato allo Stato, in risarcimento del disturbo che si è dato per tutelarmi da un’ingiustizia che ho subìto e che lui stesso, attraverso le sue istituzioni, ha riconosciuto come tale.
Pago perché quando ero ferocemente disoccupata ho voluto testardamente lavorare.
Pago perché sono stata obbligata a farlo senza contratto e dunque senza l’ombra di una garanzia – e infatti me l’hanno messa al culo.
Pago perché mi sono ribellata all’ingiustizia, oltre all’umiliazione, di non venir retribuita per un lavoro svolto oltretutto con zelo; in compenso, sulle fatture mai saldate io le tasse le ho pagate, perché il contratto non c’era, ma la partita iva (la mia) sì.
Pago, in definitiva, perché ho avuto la bella idea di chiedere aiuto allo Stato, di appellarmi alla Legge, e non ai picchiatori, e non al Gabibbo (come proponevano altri colleghi truffati come me e in tutto eravamo quasi una cinquantina). L’avvilimento, enorme, che ho addosso in questo momento mi spinge a pensare che mai una scelta fu più sbagliata. 

A me successe una cosa simile, per 3000 euro. Ma il mio avvocato si mise d’accordo con il loro avvocato e la cosa si chiuse con un pagamento di 1500 euro, un anno dopo (lorde e blablabla. Praticamente ho preso duecento euro per ogni mese di lavoro, ma almeno non ho pagato).
Anche i miei clienti erano scomparsi. Gli unici segni di vita che mi erano arrivati erano state due lettere in cui mi si accusava di essere stata molto imprecisa nell’uso del lessico medico, molto imprecisa. Che insomma, ora. Ecco. Non era vero, fidatevi. Però per questo, dicevano, non mi avrebbero pagato (a lavoro già concluso). Niente di niente.
Intanto, ad altri miei due colleghi che erano più indietro di me nel lavoro, gli stessi proponevano di chiudere la faccenda con il pagamento di una frazione molto piccola del dovuto, con un’altra scusa.
Non so che magheggi abbia fatto il mio avvocato: queste cose mi sono del tutto misteriose. Ma dopo aver letto la storia di Paola, dopo averci parlato per telefono, dopo aver cercato di capire la differenza tra la sua storia e la mia, ho il sospetto che dietro ci sia solo la sfortuna (di chi vive adesso in questo tempo sbagliato) e non l’ingenuità. E che non ci sia quasi nessun modo per difendersi. Smentitemi, vi prego.