Ho un’amica disabile. È tante altre cose: per me è un’amica, per qualcun altro è una figlia, una sorella, una moglie, una vicina di casa. E poi è un’elettrice, una lettrice, una che fa torte di mele da urlo, una che beve quanto me e forse riesce a mangiare persino di più: una che guida, viaggia, combatte le sue battaglie, coccola i suoi gatti, fuma e poi rifuma e, generalmente, si circonda di un gran casino di cose e di idee (per questo è una mia amica). È anche laureata e, a prezzo di una gran fatica, piano piano, sta cominciando a far valere la sua professionalità. Una professionalità molto particolare, la sua, perché è psicologa e si occupa proprio di psicologia della disabilità.
Attenzione. Avrebbe anche potuto essere pedagogista, architetto, linguista, medico, educatrice, urbanista, giornalista. La storia non cambia. Si tratta di una persona altamente qualificata (sebbene non altrettanto attiva, per le ovvie difficoltà che incontra) capace di migliorare il mondo a noi abili e a noi disabili. Dico noi disabili perché la disabilità della mia amica è abbastanza diffusa, è di quelle che ti possono arrivare in casa senza prima suonare il campanello e a pensarci bene non posso giurare che non mi capiterà mai addosso. Quindi, la mia amica è una risorsa. All’elenco di cose che è (amica, disabile, figlia, sorella…) aggiungete risorsa.
Eppure la si invita a fare il suo mestiere, a parlare di disabilità e abilità, a incontrare persone e situazioni di bisogno, senza pagarle una lira.
Accidenti, dico io. Rifiuta. I suoi argomenti assomigliano a quelli dei miei colleghi (e a volte anche miei): è un’occasione, mi faccio conoscere, dormo da amici, me lo ha chiesto uno che conosco… E poi: così posso dare visibilità alla mia disabilità.
Sì, ma sono cose impegnative, dico. Si tratta di viaggiare, di studiare, di prepararsi a lungo. Rifiuta, insisto. Difendi la tua professionalità e difendi il mercato: dove la trovano un’altra come te? La devono pagare, se la vogliono, una come te… Vado avanti agitando l’indice in aria, ripetendo con enfasi il discorso di sempre: non si deve lavorare gratis!
E blablabla.
Ma a una cosa non avevo pensato. Mi guarda e me la spiega lei: a me però me la fanno passare come un’opportunità proprio perché sono disabile. Cioè?
Cioè: a lei che è disabile non solo si chiede di lavorare gratis, ma si chiede anche di ringraziare. Ohibò. Tanto, sennò, che cosa faresti delle tue giornate?
Forse è vero: certe cose diventano battaglie e le si vive in modo diverso, pazienza se assomigliano al lavoro. Per esempio, a certi festival della scienza noi giornalisti scientifici andiamo sempre, tutti insieme, tutti gli anni, per sentirci in famiglia e nel nome della scienza: non mi sognerei mai di chiedere soldi e così molti miei colleghi (i rimborsi però sì, quelli li chiediamo fino all’ultima lira). Ma succede una volta, due, e sono cose che scegliamo di fare. Sono, in un certo senso, promozioni della cultura scientifica, l’equivalente di lei che dice posso dare visibilità alla mia disabilità. Così noi che ci lavoriamo abbiamo tutti gli interessi a far sentire forte la voce di una comunità. Abbiamo una convenienza, ecco.
Ma la mia amica disabile? Perché quella deve essere la norma, per lei? Perché a lei rispondono sempre è un ente no-profit, deve venire gratis e non possiamo nemmeno organizzarle il viaggio, ma non crediamo possa perdere l’occasione di avere questa bella platea davanti? Fino a: scusa, ma quello che ti serve per arrivare fin qua e partecipare, dovresti pagartelo da te.
Certe cose saranno battaglie, ma a lei non è dato scegliere. È dato solo di ringraziare.
Allora riprendete l’elenco di cui sopra: amica, disabile, figlia, sorella… risorsa. E aggiungete: donna incomprensibilmente grata a chi le concede di essere tutto quel che, già da sola, potrebbe essere ed è.