Archivio mensile:ottobre 2013

Stamina e bambini in tv: dieci domande alle Iene

Quelle che seguono sono dieci domande rivolte alla redazione delle Iene (e a Giulio Golia in particolare) a proposito del caso Stamina, compilate da un gruppo di giornalisti scientifici ed esperti che si sono occupati della vicenda in questi mesi: Marco Cattaneo, Salvo Di Grazia, Emanuele Menietti, Alice Pace, Antonio Scalari e io.

Se il caso Stamina esiste, è perché le Iene hanno dato una straordinaria visibilità alla vicenda operando alcune scelte che per noi, che in qualche modo siamo loro colleghi, sono tuttora difficili da capire.
Nei loro servizi televisivi sono stati omessi molti aspetti della storia, compresi quelli più inquietanti e legati al lavoro della magistratura. Sono stati mandati in onda bambini sofferenti, a dispetto di regolamenti e protocolli sull’impiego dei bambini in tv. Sono stati criticati gli scienziati che, sul protocollo Stamina, hanno avanzato il più banale dei dubbi: se è la soluzione a tante terribili malattie, perché chi lo possiede non lo apre al mondo, perché non lo rende pubblico, perché non permette a tutti di usarlo?
Il mio sospetto è che di scientifico, in questa storia, ormai non sia rimasto molto. Di certo, però, è rimasta la tv accesa a mostrarci pezzi di realtà e lacrime. E sono (ancora) convinta che chi ne detiene il telecomando abbia l’obbligo di interrogarsi, e di lasciarsi interrogare, su come ha scelto di usarlo.

1. Perché voi delle Iene non spingete Davide Vannoni a rendere pubblico il metodo Stamina? Se è davvero così efficace, non pensa sia giusto dare la possibilità a tutti i medici e pazienti di adottarlo?

2. Nei suoi servizi per Le Iene ci ha mostrato alcuni piccoli pazienti in cura con il metodo Stamina. Dopo otto mesi e quasi 20 puntate, perché non ha mai coinvolto le altre persone che Vannoni dice di aver curato negli ultimi anni, invitandole a mostrare i benefici del metodo Stamina?

3. Perché non ha mai sentito la necessità di dare voce anche a quei genitori che, sebbene colpiti dalla stessa sofferenza, non richiedono il trattamento Stamina e anzi sono critici sulla sua adozione?

4. Nel primo servizio su Stamina lei dice che Vannoni prova a curare con le staminali casi disperati «con un metodo messo a punto dal suo gruppo di ricerca». Di quale gruppo di ricerca parla? Di quale metodo?

5. La Sma1 non sarebbe rientrata nella sperimentazione nemmeno se il Comitato l’avesse autorizzata, perché lo stesso Vannoni l’ha esclusa, ritenendola troppo difficile da valutare in un anno e mezzo di studi clinici. Come mai continua a utilizzare i bambini colpiti da questa patologia come bandiera per la conquista delle cure compassionevoli?

6. Perché non ha approfondito la notizia delle indagini condotte dalla procura di Torino su 12 persone, tra cui alcuni medici e lo stesso Vannoni, per ipotesi di reato di somministrazione di farmaci imperfetti e pericolosi per la salute pubblica, truffa e associazione a delinquere?

7. Perché non ha mai interpellato nemmeno uno dei pazienti elencati nelle indagini della procura di Torino?

8. Perché ha omesso ogni riferimento alle accuse di frode scientifica da parte della comunità scientifica a Vannoni, al dibattito attorno alle domande di brevetto e alle controversie che hanno portato a un ritardo nella consegna dei protocolli per la sperimentazione?

9. In trasmissione lei fa riferimento alle cure compassionevoli, regolamentate dal Decreto Turco-Fazio. Perché non ha spiegato che il decreto prevede l’applicazione purché «siano disponibili dati scientifici, che ne giustifichino l’uso, pubblicati su accreditate riviste internazionali»?

10. Se il metodo Stamina si dimostrasse inefficace, che cosa si sentirebbe di dire alle famiglie dei pazienti e all’opinione pubblica?

Una bibliografia minima:
a. comincio dalle cose mie che sono facili. È ancora in edicola un lungo e dettagliato articolo sulle Scienze, mentre online trovate questa riflessione.
b. Marco Cattaneo ne ha scritto tanto sul suo blog seguendo la vicenda dagli inizi.
c. Salvo Di Grazia è Medbunker (ed è un medico vero): sul suo blog trovate davvero un sacco di informazioni tecniche precise, affidabili e chiare.
d. di Emanuele Menietti vi consiglio soprattutto questo, scritto per il Post (ma anche tutto il resto: cercatevelo da voi).
e. Alice Pace ha fatto una copertura eccellente della vicenda per Wired, insieme ai suoi colleghi. Goolate “Wired + Stamina” e troverete un sacco di cose.
f. Antonio Scalari su valigiablu ha riepilogato tutto. È che il suo cognome in ordine alfabetico viene per ultimo, sennò per chi è arrivato adesso avrei consigliato di partire da qui.

Se arriveranno le risposte, avrete un altro post collettivo.
Ma su questo adesso si aprono le scommesse.

 

Dalla parte di Romeo: sono una ragazza fortunata perché mi hanno regalato un maestro

La prima volta che ci siamo visti è stato all’orale dell’esame per l’ammissione al Master in comunicazione della scienza, a Trieste, undici anni fa.
Avevo fatto uno scritto così così e andavo all’orale allegra: per me, in quel momento, la comunicazionedellascienza rappresentava soprattutto una via di fuga dignitosa dalla medicina, ma chissà quante altre avrei potuto trovarne a cercare bene. Non avevo la minima idea di che cosa significasse davvero, e avevo addosso tutta la mia curiosità impertinente e sul volto la mia bella faccia di culo.
Mi sono seduta. Al tavolo a ferro di cavallo c’erano almeno sei o sette persone, forse otto.
Alla fine dello strano colloquio (l’ultimo film che hai visto, un libro di scienza che hai letto, perché qui hai scritto questo, che cosa vuoi fare da grande? eh…), la domanda delle cento pistole me l’ha fatta Romeo Bassoli.
L’ultima volta che sono venuto a Pisa ho letto una scritta sul muro della Normale. Diceva: “livornesi aploidi”. Me la commenta?
L’ho guardato. Sorrideva sotto la barba. E, boh, devo averlo capito.
Così ho risposto: È comunicazionedellascienza anche quella. Invece, a proposito di comunicazionedellatecnologia, sui muri di via Gori può trovarne una che dice “Wojtyla è un ologramma”.
Risate*. Fine dell’esame. Eccomi a imparare il mestiere, con Romeo.

Capirsi al volo. E che lusinga, capirsi al volo con lui.
Prima lezione: via quell’aria snob e cerca di divertirti.
Una volta abbiamo scritto una pagina sugli animali clonati, per un quotidiano con cui collaboravamo in maniera fissa. Un po’ di animali a testa, tra topolini, gattini, pecorelle e tori. A me non ricordo che cosa fosse toccato, a lui di sicuro anche il cavallo.
Mandiamo i pezzi in redazione e dopo poco ci chiamano chiedendoci le foto. Prepariamo anche le foto e un file a parte con le dida. Per la foto del cavallo clonato, per giocare, lui scrive clonallo.
E il giorno dopo sul giornale ecco che campeggia la foto di un clonallo!
Nessuno aveva cambiato la dida, nessuno aveva capito che era una battuta.
Poco dopo tocca a me un pezzo sui giapponesi che costruiscono animaletti robot per fare compagnia agli anziani. Scrivo un altro articolo pieno di animaletti: qui ci sono i soliti gattini ma anche le foche e non ricordo che cos’altro. Alla fine della lista, inserisco, per fare la spiritosa, un assurdo cane cantante.
Ma vi pare che i vecchi giapponesi si mettono in casa un alano che canta?
Trattenendo a stento le risate, lo mando a Romeo che deve passarlo prima di mandarlo in redazione.
E lui legge tutto ma non ci trova niente di strano. Non si accorge del cane cantante!
Oh, quanto ho riso. E quanti sguardi interrogativi e sorridenti mi ha mandato per tutta un’intera giornata. Scrivevo e ridevo, scrivevo e ridevo, e Romeo non capiva: scuoteva la testa e rideva anche lui.
E il giorno dopo, sul giornale, ecco lì il mio cane cantante!
Beh, lo so che non si dovrebbe fare. Ma ero giovane. E mi avevano detto che dovevo divertirmi, anche sul lavoro.

Ma poi ne combino una peggiore.
Quella volta non era per fare la spiritosa, giuro. Ma correggi e ricorreggi e adatta e rendi l’articolo il più aderente possibile alla richiesta [= a quello che il caposervizio ha capito del pezzo che tu gli hai proposto e di cui non ha una minima idea ma per il quale, proprio per via del fraintendimento di cui sopra, ti ha riservato con entusiasmo uno spazio in prima pagina] alla fine, scrivo una bufala. Una bufala bella e buona. Cioè: non è che la scrivo io, è che l’attacco viene un po’ modificato prima della pubblicazione e il titolo viene sparato senza pietà. Comunque alla fine la firma è la mia. La bufala è mia.
Non mi sono divertita per niente a vederla in pagina. Con un catenaccio e un sommario che dicevano assurdità, io che sono una scienziata di ferro, nonostante il richiamo del cane cantante.
Ero arrabbiata, piena di vergogna e di tensione.
Per di più, ci hanno chiamati da Radio2 Rai: un programma di intrattenimento aveva visto il mio pezzo e aveva deciso di parlarne in diretta nazionale. Andiamo bene.
Romeo… che faccio? La sua risposta, più o meno: sei in ballo, balla.
E ho ballato.
Da quella bufala è nato un libro tradotto in tre lingue.
E non ho mai ringraziato abbastanza Romeo e la sua lezione. La seconda lezione: che fai, ti tiri indietro?

La terza, la quarta, la quinta e la ennesima lezione le tengo per me.
Non saprei nemmeno riassumerle, temo. C’era quella: un po’ di human touch, mettici un po’ di human touch! C’erano i richiami delle lezioni precedenti, come quando entrò nella stanza dove scribacchiavamo noi giovani colleghi dicendoci che per l’8 settembre ci toccava il paginone. Io, sorpresa e ingenua: tutti a casa? scriviamo di storia, adesso? E la risposta: eh… no! il rientro dalle ferie e le malattie da stress! Ricordati la prima lezione: via quell’aria snob.
C’è stato tutto un pomeriggio nel suo ufficio a farsi raccontare l’ufficio stampa, per scriverne un capitolo del manuale di comunicazione della scienza: e da chi, se non da lui, copiare le idee? Ci sono state le lezioni di giochi di parole e quelle di metafore intelligenti, le lezioni di farsi furbo col sorriso e quelle, più importanti, di onestà e umanità.
Ne ho avute tante di lezioni, da allora.
Sono stata fortunata. L’ultima cosa a cui avrei pensato è di trovarmi a ripensare a quelle lezioni e a quelle scritte sui muri di Pisa, per raccontare qui, a voi, quanto sia stato bello imparare da Romeo.

 

* I teorici in questi casi parlano di comunicazione implicita della scienza. Noi non siamo teorici.

Come va a finire? La comunicazione della scienza al tempo della crisi

[Quello che segue è un post ad altissimo rischio banalità. Spero che si risollevi coi commenti dei lettori più generosi].

Chiunque faccia un mestiere a soffietto (tipo il mio, il freelance, il commerciante, oppure il traduttore, il semprevalido idraulico e chi più ne ha più ne metta) si trova spesso a chiedersi come vada avanti la storia. Che cosa ci sia nell’ultimo capitolo, che cosa ci aspetti là in fondo, come diavolo camperemo tra dieci o vent’anni, ma anche tra due.
Per la mia professione oggi le cose si stanno mettendo così.
Quello che un tempo era pagato X, e con X/2 (cioè il netto) ci compravi un biglietto andata/ritorno per un posto a trecento chilometri da casa o un bel paio di scarpe da pioggia, oggi è pagato tra 0,8X e (più spesso) X/2, e con X/4 oggi ci mangi una pizza. Una pizza dietro casa, e se piove pazienza.
Quello che un tempo era pagato bene, che chiedeva fatica e studio ma ti faceva sentire valorizzato per le tue competenze, oggi è pagato la metà secca, non importa il resto. E mentre sei lì, come un San Sebastiano su un palco, a ricevere dalla platea le frecciatine di quelli che La mia più che una domanda è una provocazione, e le solite stupidaggini di chi si sente più furbo perché si vede a occhio e non c’è bisogno di tanta scienza, che ha letto su internet una vaccata scambiata per verità, e critica noi della scienza ufficiale, ti risuona in testa sempre più forte: ma perché ho accettato questa moderazione ingrata? Almeno mi pagassero bene, bene come un paio di anni fa, i cretini li sopporterei meglio. E invece: tiratemi pure addosso, io lo faccio per passione.
Infine, tanti lavori che un paio di anni fa c’erano, spesso non ci sono proprio più. Se ci sono ancora, sono diventati volontariato: sposa la mia causa, sii buono, è per la collettività con varianti più o meno imbarazzanti. Ho appena ricevuto una mail che lo dice ancora prima di fare le presentazioni: gentile Silvia, visto il nostro budget limitato… e lì io già ci andavo gratis, perché sono buona ed è per la collettività.

Tecnicamente, si parla di vacche magre*.
Un paio di piccole consolazioni: succede sempre più spesso anche nei paesi che ci piace chiamare civili, come quelli anglosassoni, con strascichi importanti. E succede, pare, a tutti. O almeno a tutti gli amici miei, quelli bravi e onesti e soprattutto con cui posso confrontarmi. Ci incontriamo come carbonari in piccole mailing list e ci diamo appuntamento in malora o a remengo: anche tu vai in malora? ci vediamo là tra qualche giorno! Fa ridere, ma mica tanto.
Io ho sempre detto che noi della scienza siamo privilegiati. Perché abbiamo più mercato, siamo più versatili e riconoscibili dei nostri colleghi giornalisti generici: siamo specializzati, accidenti. Ma mi sto rendendo conto che forse noi soffriamo più degli altri lo scadimento della qualità dell’informazione, perché proprio sulla qualità punta chi è specializzato. Lo soffriamo anche psicologicamente, come il San Sebastiano di cui sopra. E allora (sentite con che strazio): come andrà a finire?

Tra le tante cause di tutto questo, quella che viene più spesso tirata in ballo è la mancanza di un modello di marketing per la roba web. Cioè: non si sa bene come far rendere la roba online, poi online c’è di tutto, e la gente non capisce il diverso valore di quello scritto (gratis) da chissachì in un sito di controinformazione e quello che invece è scritto da uno specializzato in quei temi e magari sano di mente. Perché dovrebbero coprirti d’oro per scrivere online?
Intanto i giornali di carta non sembrano passarsela bene, basta dare un’occhiata ai trend delle vendite, agli investimenti pubblicitari o ai compensi per i collaboratori: investire solo nella scrittura di carta sembra essere una pessima idea al momento (ditelo anche all’ordine dei giornalisti, se vi capita).
Le aziende radiotelevisive… vabbè.

Restano le istituzioni: le istituzioni scientifiche, nel mio caso, pubbliche e private. Mi chiedo se, visto il problema di cui sopra, per cui web pullula di cazzate pseudoscientifiche scambiate per informazioni serie, e visto che non si può chiedere al pubblico (no, non si può chiedere) di essere in grado di distinguere che cosa c’è di vero, mi chiedo se non correranno ai ripari.
Tipo facendoci lavorare, in tanti, e bene**: selezionandoci per le nostre competenze, chi ne ha, in comunicazione, in strategie di comunicazione, in comunicazione dei rischi, in comunicazione ai piccoli, in comunicazione in emergenza, in comunicazione web, in comunicazione della scienza ai non scienziati e così via. Costruendo uffici comunicazione all’altezza dell’impresa. E costruendo professionalità all’altezza dell’impresa.
Quindi forse, piano piano piano, ci sposteremo davvero sull’istituzionale (e ci sarà chi questionerà sulla nostra indipendenza).
Forse ci inventeremo qualche forma associativa capace davvero di promuovere il nostro ruolo e di difenderci (e quello questionerà sulle definizioni).
Forse arriverà una nuova tecnologia che cambierà di nuovo il panorama e i più bravi di noi si adatteranno ancora una volta (mentre qualcuno resterà al palo a questionare, tiè).
Non lo so.
Forse invece è solo una fase: se fai un mestiere a soffietto lo devi mettere nel conto che a volte soffi e a volte no. Non succederà niente di eclatante, a breve: semplicemente ricominceremo a soffiare. In fondo, me meschina, è quello che spero.

 

* Io resto col sospetto che a volte le vacche magre vengano messe a palizzata a nascondere quelle paffute. Ditemi pure che sto diventando paranoica.
** La comunicazione della scienza non è un lusso: è un settore strategico per lo sviluppo scientifico e culturale di un paese. Solo che a volte mi sa di essere nel paese sbagliato.

Scienziati-fino-a-un-certo-punto e Bacone che piange: ma io che cosa ci posso fare?

Disclaimer: Esco da un paio di settimane assai pesanti per via di un’inattesa popolarità conquistata parlando di £%&$**#. Siccome vorrei evitare di trovare altre minacce e insulti nelle mie caselle di posta, e siccome mi potrebbe capitare di accennare di nuovo a £%&$**#, da oggi in poi userò il seguente insieme convenzionale di segni grafici per riferirmi a £%&$**# senza dire £%&$**#: £%&$**#. Chiaro?

Ho notato uno strano fenomeno.
Ci sono scienziati, rigorissimi e molto bravi nel proprio ambito disciplinare, che perdono completamente la Trebisonda quando si tratta di argomenti distanti dai propri. Fino a comportarsi da non-scienziati.
Galileiani di ferro dentro casa, dubitabondi viaggiatori della realtà fuori dal portone.
Io li chiamo Scienziati fino a un certo punto: il loro punto.
Del tipo: esistono fisici che quando hanno il raffreddore si comportano come se Amedeo Avogadro non fosse mai nato. E che quando vanno al supermercato fanno acquisti tra i banchi ortofrutta guidati da principi salutistici mai provati, e mai messi in discussione. Esistono ovviamente anche biologi che leggono l’oroscopo e medici che non sono del tutto convinti che i terremoti non si possano prevedere.
Gli Scienziati fino a un certo punto sono prima di tutto esseri umani e di fronte a certe paure, come in tanti altri casi, non sono affatto diversi dalla signora Marisa del piano di sotto. Loro tendono a pensarla un po’ ignorante, la Marisa del piano di sotto, ma dovrebbero ricordarsi che tutti lo siamo, quando trattiamo cose che non conosciamo. E che tutti, chi più chi meno, abbiamo la tendenza ad affidarci a qualche pensiero magico e consolatorio a cui attribuire i problemi del mondo.

In genere lo schema è questo: c’è un problema.
Un problema che ci tocca di persona o che ci sconvolge particolarmente: bambini che soffrono, catastrofi naturali, malattie ineluttabili.
Non c’è un colpevole e spesso nemmeno la soluzione.
Cerchiamoci un colpevole e/o la soluzione.
Il colpevole: la cosa più facile è inventarcelo lontano e generico: la politica, le multinazionali (in genere del farmaco o dell’energia), la Nasa, il potere…
Attenzione: questo vale anche per cose molto precise, problemi molto circoscritti, e per narrazioni giornalistiche semplicistiche, le più efficaci. E in genere questo passaggio mette d’accordo tutti, Scienziati fino a un certo punto e Marise del piano di sotto.
La soluzione. Qui le cose si fanno più complesse perché potremmo volerci affidare alla giustizia oppure volerci svincolare dalle cose ufficiali (ricordiamo: sinonimo recente di cattivo, in contrapposizione a naturale, sinonimo recente di buono) e fare come quella che al TgR ha spiegato di curarsi con limone e peperoncino. Come ci sono diverse sfumature di colpevolezza, reale o magica, ci sono anche diverse sfumature di soluzioni, dalla più razionale e magari comprensibile a quella completamente fuori di melone. Solo che qui si agisce: si comprano pasticche di zucchero o si va dall’avvocato. A volte si combinano guai. E anche questo vale per la Marisa come per lo Scienziato fino a un certo punto.

L’esperienza degli ultimi giorni mi ha però aperto una prospettiva nuova. Ci sono persone, non poche, magari anche socialmente orientate e per altri versi sensate, che cercano un colpevole anche se il problema non c’è.
Cioè seguono il procedimento inverso: ho un colpevole, mi invento la colpa.
(E intanto Bacone piange).
Per me, che sono una scettica che ormai non crede più a nulla e tra un po’ comincerà a difendere i poteri forti solo perché si è rotta le balle di sentir attribuire loro più colpe di quelle che certe donne danno alla triade (mestruazioni + tempo + finta intolleranza alimentare)*, per me questa è la cosa più difficile da capire. È come voler soffrire a tutti i costi, come inventarsi una malattia che non si ha, come credere che qualcuno mi voglia davvero morta mentre a nessuno interessa un fico di quello che faccio.
Siccome poi questo colpevole può cambiare da una persona all’altra (poniamo che a me stiano antipatici gli americani, a un altro i cinesi), e siccome risalendo dal colpevole a una colpa indefinita si possono aggiungere dettagli per tutti i gusti (dagli alieni agli Ogm, dai terremoti all’energia nucleare), procedendo in questo modo si possono inventare storie per tutti i gusti.
Tipo: i portoghesi tramano per diffondere Ogm capaci di scatenare terremoti proiettando energie cosmiche lungo le coste attraverso il controllo del baccalà… e così via. Inventatevi la vostra storia.
Poi cercate su Google: può darsi che ci sia già chi la propala a mezzo web.

Ora, posto che io di mestiere scrivo per la signora Marisa e per lo Scienziato fino a un certo punto (che, abbiamo detto, dal punto di vista percettivo sono quasi sempre la stessa cosa), ma ahimè anche per quelli che ragionano colpevole -> colpa, come mi devo comportare?
Per di più oggi tu scrivi un articolo e la gente ti manda una mail, personale, per commentare. Oppure ti twitta. E, oh, ti tocca rispondere. Almeno quasi sempre, diciamo una volta su due. È come aprire uno sportello elettronico disagi vari, senza che però nessuno ti dia i 5 cents di Lucy. A quelli che fanno piangere Bacone devo rispondere? Serve? Fa parte del mio lavoro o, almeno, della mia missione su questo pianeta? (Come quale pianeta? Sto parlando di Nibiru, è ovvio).
E allo Scienziato fino a un certo punto che cosa devo dire? Mi ci devo arrabbiare?
Alla fine, mi capirete, la mia preferita è sempre la signora Marisa. Soprattutto perché la signora Marisa non sa come rintracciarmi su Facebook.

(Ah: sono arrivata fin qua senza scrivere £%&$**#. Sono soddisfazioni).

 

* Adesso mi aspetto che qualcuno mi dia della misogina e poi siamo a posto. Lo dico perché, essendo donna anch’io, raccolgo confidenze di altre donne e noto la tendenza di attribuire un sacco di colpe a quella triade là. Ma a volte anch’io lo faccio, eh. Certo. Eh.