1. Settembre sta finendo e quest’anno non si sente volare una mosca. Nemmeno uno straccio di ricercatore universitario sul tetto, nemmeno uno striscione dalle finestre dell’ultimo dipartimento. Giusto una danza maori nel centro di Roma. Ma nessun martellamento da parte dei comitati in difesa della ricerca pubblica, nessuna distesa di camici bianchi da calpestare, nessun tiro a segno sugli scienziati. Che cosa succede?
2. Settembre sta finendo e con lui il terzo trimestre del 2011. Il che significa che si sta avvicinando il pagamento dell’Iva. Ho preparato il sacco a pelo e la borraccia di gin: andrò a dormire sul pianerottolo di chi non mi sta pagando le fatture emesse in questi tre mesi. Come dice quello, noi siamo la fascia alta dei morti di fame. Recuperiamo l’orgoglio. Potrei anche essere felice di far parte della categoria degli intellettuali da pianerottolo: sono in buona compagnia, c’è gente che ci ha scritto dei libri. La notte, sul pianerottolo, potrei comporre degli haiku e leggere di una qualche filosofia patocca. E che fascino che avrei, col mio moleskine e il plaid a scacchi.
3. Settembre sta finendo e ricominciano le manifestazioni dei precari. E ricomincio a giurare a me stessa che mi alzerò dal pianerottolo di quello e ricomincerò anch’io a portare in giro il Verbo. Quella cosa che ho scritto e riscritto, ma che ogni volta mi risale su, con un burp di noia, tutte le volte che leggo slogan come il nostro tempo è adesso. Il quale conterrà pure un fondo di verità, ma contiene anche un bel po’ di sciacquatura di piccineria e diluisce i pensieri: non è che a noi serva il posto fisso per noi e per i nostri portafogli (e poi, accidenti, la vogliamo smettere di pensare con le categorie degli anni settanta? perché abbiamo ancora i neuroni a zampa d’elefante?!). A noi, a tutti noi, grandi e piccini, serve una società solida basata su un mercato del lavoro sensato e forse quello di oggi non è così. Al mio portafogli basterebbe che quelli del pianerottolo pagassero puntuali (e magari anche un importo pari a quello concordato all’inizio del lavoro, grazie). Però a me serve soprattutto di sapere che la sanità, la scuola e tutte queste cose qui mi saranno garantite (e saranno efficienti) per tutta la vita, come lo erano quando ero bambina. Non posso credere che le condizioni del lavoro di chi ci sta dentro non abbiano niente a che fare con la qualità di questi servizi, per cui ha più senso che io mi batta per le loro condizioni di lavoro, cioè per i miei diritti di cittadina, che per le mie. Estendiamolo a tutti e vedremo che tutti abbiamo interesse nel lavoro degli altri (si chiama collettività e, volenti o nolenti, ci stiamo dentro). Quindi non è il nostro tempo che deve essere adesso: è il tempo di tutti che dovrà essere anche nel futuro. Forse quegli slogan hanno bisogno di una ripensata da pianerottolo, insomma.
4. Ora, settembre o non settembre, la categoria che ha più difficoltà a spiegarsi, in questa confusione tra precariato e precarietà, sono proprio i precari della ricerca (vedi al punto 1). Perché che cosa faccia un metalmeccanico più o meno lo capiscono tutti: tutti hanno avuto un maestro alle elementari e diversi professori dalle medie in su, tutti siamo stati almeno una volta davanti a un medico, tutti hanno un’idea di quel che fa un giornalista (vabbè, un’idea molto molto approssimativa). Ma che cosa fa un ricercatore precario? E loro ti dicono siamo il futuro del paese perché senza ricerca non c’è innovazione e senza innovazione l’italia resta al palo e blablabla. Come se gli insegnanti non fossero anche loro lì, tutti i giorni, a tirar su il futuro del paese. Poi ti dicono siamo precari da dieci anni, non possiamo avere un mutuo, non facciamo figli blablabla. Come se tutti non avessimo sentito parlare, da decenni, di meritocrazia, quella roba per cui dovrebbe andare avanti chi è più bravo, non chi è più perseverante. E siamo tutti d’accordo (in teoria. Poi, in pratica, questo è il paese che da sempre preferisce la fedeltà al talento). E come se quelli delle altre categorie non avessero gli stessi problemi. Ne segue che i problemi della comunicazione di cui al punto 3, combinati con il punto 1, sono ancora più gravi. Forse è per questo che, dai e dai, a settembre 2011 anche loro di stare sul tetto si sono un po’ stancati.
4. Fine settembre: è domenica, è bel tempo, ma sono a casa attaccata al computer, a pontificare sulla comunicazione della sfiga. Il prossimo post lo scriverò dal pianerottolo e si intitolerà Non perdo la classe: le mie pezze al culo sono più eleganti delle tue. Noi intellettuali da pianerottolo non abbiamo soluzioni, ma a mostrare i problemi siamo davvero molto bravi.