Archivio mensile:settembre 2011

Sono un’intellettuale da pianerottolo. L’importante è prenderne coscienza

1. Settembre sta finendo e quest’anno non si sente volare una mosca. Nemmeno uno straccio di ricercatore universitario sul tetto, nemmeno uno striscione dalle finestre dell’ultimo dipartimento. Giusto una danza maori nel centro di Roma. Ma nessun martellamento da parte dei comitati in difesa della ricerca pubblica, nessuna distesa di camici bianchi da calpestare, nessun tiro a segno sugli scienziati. Che cosa succede?

2. Settembre sta finendo e con lui il terzo trimestre del 2011. Il che significa che si sta avvicinando il pagamento dell’Iva. Ho preparato il sacco a pelo e la borraccia di gin: andrò a dormire sul pianerottolo di chi non mi sta pagando le fatture emesse in questi tre mesi. Come dice quello, noi siamo la fascia alta dei morti di fame. Recuperiamo l’orgoglio. Potrei anche essere felice di far parte della categoria degli intellettuali da pianerottolo: sono in buona compagnia, c’è gente che ci ha scritto dei libri. La notte, sul pianerottolo, potrei comporre degli haiku e leggere di una qualche filosofia patocca. E che fascino che avrei, col mio moleskine e il plaid a scacchi.

3. Settembre sta finendo e ricominciano le manifestazioni dei precari. E ricomincio a giurare a me stessa che mi alzerò dal pianerottolo di quello e ricomincerò anch’io a portare in giro il Verbo. Quella cosa che ho scritto e riscritto, ma che ogni volta mi risale su, con un burp di noia, tutte le volte che leggo slogan come il nostro tempo è adesso. Il quale conterrà pure un fondo di verità, ma contiene anche un bel po’ di sciacquatura di piccineria e diluisce i pensieri: non è che a noi serva il posto fisso per noi e per i nostri portafogli (e poi, accidenti, la vogliamo smettere di pensare con le categorie degli anni settanta? perché abbiamo ancora i neuroni a zampa d’elefante?!). A noi, a tutti noi, grandi e piccini, serve una società solida basata su un mercato del lavoro sensato e forse quello di oggi non è così. Al mio portafogli basterebbe che quelli del pianerottolo pagassero puntuali (e magari anche un importo pari a quello concordato all’inizio del lavoro, grazie). Però a me serve soprattutto di sapere che la sanità, la scuola e tutte queste cose qui mi saranno garantite (e saranno efficienti) per tutta la vita, come lo erano quando ero bambina. Non posso credere che le condizioni del lavoro di chi ci sta dentro non abbiano niente a che fare con la qualità di questi servizi, per cui ha più senso che io mi batta per le loro condizioni di lavoro, cioè per i miei diritti di cittadina, che per le mie. Estendiamolo a tutti e vedremo che tutti abbiamo interesse nel lavoro degli altri (si chiama collettività e, volenti o nolenti, ci stiamo dentro). Quindi non è il nostro tempo che deve essere adesso: è il tempo di tutti che dovrà essere anche nel futuro. Forse quegli slogan hanno bisogno di una ripensata da pianerottolo, insomma.

4. Ora, settembre o non settembre, la categoria che ha più difficoltà a spiegarsi, in questa confusione tra precariato e precarietà, sono proprio i precari della ricerca (vedi al punto 1). Perché che cosa faccia un metalmeccanico più o meno lo capiscono tutti: tutti hanno avuto un maestro alle elementari e diversi professori dalle medie in su, tutti siamo stati almeno una volta davanti a un medico, tutti hanno un’idea di quel che fa un giornalista (vabbè, un’idea molto molto approssimativa). Ma che cosa fa un ricercatore precario? E loro ti dicono siamo il futuro del paese perché senza ricerca non c’è innovazione e senza innovazione l’italia resta al palo e blablabla. Come se gli insegnanti non fossero anche loro lì, tutti i giorni, a tirar su il futuro del paese. Poi ti dicono siamo precari da dieci anni, non possiamo avere un mutuo, non facciamo figli blablabla. Come se tutti non avessimo sentito parlare, da decenni, di meritocrazia, quella roba per cui dovrebbe andare avanti chi è più bravo, non chi è più perseverante. E siamo tutti d’accordo (in teoria. Poi, in pratica, questo è il paese che da sempre preferisce la fedeltà al talento). E come se quelli delle altre categorie non avessero gli stessi problemi. Ne segue che i problemi della comunicazione di cui al punto 3, combinati con il punto 1, sono ancora più gravi. Forse è per questo che, dai e dai, a settembre 2011 anche loro di stare sul tetto si sono un po’ stancati.

4. Fine settembre: è domenica, è bel tempo, ma sono a casa attaccata al computer, a pontificare sulla comunicazione della sfiga. Il prossimo post lo scriverò dal pianerottolo e si intitolerà Non perdo la classe: le mie pezze al culo sono più eleganti delle tue. Noi intellettuali da pianerottolo non abbiamo soluzioni, ma a mostrare i problemi siamo davvero molto bravi.

Esistenzialismi da freelance: io, la mia miopia e il mio schiacciasassi

Dice: Ma tu che cosa vorresti, allora, dalla vita? Dico: Prima di tutto, vorrei che il mio lavoro trovasse un po’ di continuità e di stabilità. Non voglio il posto fisso, sto benissimo con la mia vita da free lance anche perché è l’unica che conosco. Ma mi piacerebbe… insomma… mi piacerebbe lavorare di meno e guadagnare di più. Lo so, è una banalità. Lavorare di meno e guadagnare di più, chi è che non sarebbe pronto a sottoscriverlo subito? Io però un tempo lavoravo uguale e guadagnavo di più: pensavo che le cose col tempo sarebbero migliorate, invece non fanno altro che peggiorare. Cioè: a questo punto della mia vita professionale credo di meritarmi un po’ più di serenità. Vorrei non preoccuparmi di ogni pagamento, perché vorrei che fosse ovvio che i miei clienti mi devono pagare in fretta e correttamente. Vorrei soprattutto che mi pagassero in maniera consona al lavoro che faccio per loro, e in euro, non in altre valute tipo la bellezza, la soddisfazione, la visibilità, il piacere di stare con noi. Vorrei avere entrate abbastanza pacifiche e regolari, con normali prospettive future, e non sentire addosso il catastrofismo di chi si preoccupa (troppo) per me. Vorrei non pensare a un incidente o a una malattia, mia o dei miei cari, come a un pericolo gravissimo per la mia autonomia lavorativa. Insomma, vorrei quello che per te è ovvio, e poi partire da lì per fare il resto.

Dice: Il resto, appunto, stavo per chiedertelo: il resto non ti interessa? Dico: Sai, io ci vedo corto. Oltre un mese non vado. Non è che si stia male, eh. E poi, sono miope anche in senso clinico: a vedere corto ci sono abituata, ahahah. Solo che se metto gli occhiali recupero i diecidecimi di vista con cui mi muovo agilmente nel mondo, mentre per la miopia esistenziale occhiali non ne esistono. E tocca stare qui dentro, in un calendario di poche settimane. Il fatto è che l’uomo si abitua a tutto e oggi questa miopia esistenziale è diventata la mia normale normalità. Come è successo? Beh, per le ragioni che ti dicevo prima. O forse anche perché non ho mai avuto la necessità di vederci lungo e mi sono costruita una vita sui brevi termini. Ma i brevi termini non sono i minimi termini, eh: anzi, per me è il modo per dare e avere il massimo di tutto. Insomma, quindi, e… Vabbene, sì, è vero. Non è che non mi piacerebbe avere continuità e stabilità anche nel resto della mia vita. Ma mi sembra inevitabile che siano problemi da seconda battuta.

Dice: Ma allora, scusa, ma perché ti imbarchi proprio adesso in questi lavori, adesso che in Italia le cose vanno così? Perché non aspetti un po’? O perché non ti trovi una cosa stabile, meno eccitante, e a quelle eccitanti non lasci una parte marginale del tuo tempo, almeno finché le cose non cambiano? Dico, e mi incazzo: Scusa, quando lo dovrei fare? Adesso ho trentaquattro anni, è adesso che sono nel pieno delle mie forze e della mia professionalità. Prima ero una ragazzetta che aveva troppo da imparare, dopo (molto dopo, tranquilli) sarò una signora che alle undici va a dormire. Di che cosa mi stai rimproverando? Di essere nata nell’anno e nel posto sbagliato? Eh, pazienza. L’alternativa sarebbe il suicidio, sai. Ma guarda – guarda – che io sono una che combatte. Se tu mi chiedi che cosa vorresti dalla vita attacco con la lagna del libero professionista del mercato culturale che blablabla. Ma se tu non me lo chiedi io vado avanti lo stesso per la mia strada a bordo del mio meraviglioso schiacciasassi. In questo mondo ci devo stare, oggi, ed è qui che devo vivere e lavorare, nonostante la miopia esistenziale, quella reale e i ritardi dei pagamenti della Rai. E quindi vado, le mani salde al volante. Ma non preoccuparti per me, davvero: il mio schiacciasassi ha il serbatoio pieno.

Tipi umani da giornalista scientifica / 4: l’Ufficio Stampa Indolente

Cioè. Parliamone. Il tuo mestiere è vendere scienziati, sei il piazzista della ricerca, lo scienziatovendolo per definizione: venghino siori venghino e questa roba qui. E allora perché me la meni tanto per darmi il numero di un avanzo di corridoio qualsiasi? O anche di qualcuno di cui ho già io stessa individuato il nome e che dovrebbe parlare, per cinque minuti cinque, di una roba che ha firmato lui in persona su una rivista scientifica di quelle che mai cambierà la storia dell’umanità?
Conosco addetti stampa che ti rifilano la loro mercanzia anche durante le cene di compleanno, gente che ti telefona a ferragosto, che sfodera di continuo le meraviglie dell’istituto per cui lavora, che ha imparato così bene gli argomenti delle ricerche dei suoi scienziati che potrebbe prendersi una laurea in quattro balletti. E invece tu, USI, ti fai pregare.
Avere a che fare con te è come parlare con quei commercianti romani che sembrano volerti scoraggiare da ogni acquisto: signò, lo dico contro il mio interesse: je conviene lassà perde… ma lo vole der quindici o der dodici? perché nun è mica la stessa cosa… l’ho finito, mi sa che in magazzino nun cellò, e comunque è fuori produzione…
Come il ferramenta di Neri Marcoré.
Ma cavolo: voglio solo uno scienziato e tu lì ne hai a pacchi. Ma che ne so se è del quindici o del dodici, se in magazzino li hai finiti, se sono fuori produzione?! Rifilamene uno e fammi credere che sia il migliore in circolazione: signò, nun serve che telefona a un altro istituto di ricerca: questo è il migliore in commercio. Tanto io me la bevo, quasi sempre me la bevo.

Di un ufficio stampa, quelli come me vogliono e cercano la fiducia. Se so che fai bene il tuo lavoro, che non mi lasci appesa a una mail a cui non risponderai mai e che mi dai davvero scienziati competenti, quelli migliori del tuo catalogo, finirà che ti chiamerò tutte le volte che mi verrà un dubbio. Diventeremo amici e tutti e due ne avremo grandi vantaggi. E non solo io e te. Se diventerai il mio pusher, e lo farai con un po’ di attenzione, anche loro, gli scienziati, cominceranno a capire come e perché il meccanismo virtuoso del mercato dell’informazione scientifica sia una cosina delicata e indispensabile a tutti. A tutti, anche a lettori e ascoltatori, e questo dovrebbe far sentire a noi tre (scienziato, addetto stampa e me) un certa, ecco, responsabilità.

Invece sto aspettando da una settimana la risposta a due mail inviate a due grossi enti pubblici, che avrebbero dovuto passarmi un esperto con cui non avrò mai il piacere di discutere. Pazienza, cercherò altrove. Per non parlare di quelli che al telefono mi hanno dirottato per noia, dicendomi che, francamente, non avrebbero saputo aiutarmi. Ma come? E soprattutto: aiutare me?! C’è anche chi dice di no, che non mi venderà niente, perché la procedura prevedeva passaggi che ho eluso (ma la devo sapere, io, la procedura?) e quindi no, basta. Così imparo. Come quello che per fare dispetto alla moglie si taglia i testicoli. E c’è chi scambia la frettolosità per efficienza e ti rifila il primo che gli passa sotto mano, senza ascoltare me e forse nemmeno lui. Oplà, presentatevi, fate ‘st’intervista e ciao.

Sei un tipo bislacco, USI: vai contro a tutte le regole del mercato e della logica. Ed è un mistero, per me, come tu possa resistere nella tua posizione. A volte penso che sei una speranza per tutti. Nei momenti di sconforto penso invece che dovrei aggiornare il curriculum e mandarlo al tuo capo: hai visto mai che un giorno si svegli anche lui.

Tipi umani da giornalista scientifica / 3: la Scienziata Meticolosa e il suo capo

Appena la senti decidi che è lei: spigliata, interessante, attenta, brava a spiegarsi e brava a capirti. Ma che meraviglia. Simpatica, proprio simpatica. Ed è subito effetto Holden: vorresti che fosse tua amica per la pelle per poterla chiamare al telefono tutte le volte che ti gira. E farle domande o chiederle consigli. Andare a mangiare una pizza insieme, conoscere la sua vita. Ma soprattutto, tanto per cominciare, intervistarla.

Senti, allora tutto questo lo posso virgolettare? Oppure: ti va di raccontarcelo di nuovo, in trasmissione?
Risposta: eh… beh… devo sentire il mio capo. Sai è lui che mi ha permesso di fare questo lavoro poi credo che ci tenga a presentarlo e in generale a essere quello del gruppo che compare quando ci sono occasioni di questotipoepoinonsonosicuradipoterneparlare… Respira, ti prego, Scienziata Meticolosa.
Segue tentativo disperato di convincerla a fregarsene del capo.
Segue rassegnata telefonata al capo.

Chiaro che era meglio lei, chiaro. Solo che nella metà dei casi, alla fine, mi tocca davvero accontentarmi del capo. Che gli farei un bel buco nella gomma, al capo.
Mentre la SM torna a perdersi nel suo laboratorio pensando di non avere niente di interessante da dirmi. E io rimango lì, delusa, a chiedermi che razza di trauma infantile possa aver conciato così la mia ex migliore amica.

Appello alla SM: respira forte, concentrati, visualizza l’azzurro. Tu sei brava, tu sei capace, tu vali più di quel tronfio barone del tuo capo. Ed è anche un po’ un tuo compito quello di raccontare in giro che cosa fai in laboratorio coi soldi delle nostre tasse. Lo è adesso che sei (o ti dicono) giovane, e lo sarà sempre di più, quando farai carriera, se te la faranno fare. Il tuo capo dovrebbe essere orgoglioso di te, di come sei brava a lavorare e poi a spiegare quel che fai, non invidioso né iperprotettivo, e potresti anche cominciare a farglielo capire. Mi spieghi come mai i tuoi coetanei maschi non mi hanno mai fatto un numero così? E perché dovremmo trovarlo normale?
Forza: prima il braccio destro, poi il sinistro. Batti bene i piedi e comincia a nuotare. Da sola, ecchecc…

Tipi umani da giornalista scientifica / 2: lo Scienziato Provolone

Il più simpatico fu lungo il corridoio, in albergo, tornando in stanza dopo cena:
Scienziato: Qual è la tua stanza?
Io: La sette.
Sc: Peccato, speravo che fosse la otto.
Io: Perché?
Sc: Perché è la mia. (esitazione, silenzio, lo sguardo si abbassa e la mano si avvicina frettolosa alla maniglia) Buonanotte.
Slam.
E io che rimango con le chiavi in mano, ritta e zitta davanti alla porta della sette, senza essere perfettamente certa di aver capito.
Il meno simpatico fu il classico zompo del giaguaro, in macchina. Poteva averne diciotto, di lauree, master e PhD: era il classico zompo del giaguaro. Molesto, anche perché faceva seguito a una dotta discussione in inglese su un qualche problema della scienza moderna. Ero già stremata.
Nel mezzo, tutta la gamma dei comportamenti da maschio provolone che una brillante carriera scientifica non modifica sostanzialmente da quelli normali della categoria, quelli che la biologia affida all’altra metà del cielo. Tra nature e nurtrure, insomma, vince nature e il fatto che siano scienziati non li protegge dalla stupidità.

Tipo: Ma a te che stanza hanno dato? Perché la mia è grandissima, una specie di suite, ci sono addirittura due letti, uno è su un soppalco carinissimo, e dalla finestra si vede un bellissimo panorama e… vuoi vederla?
Poverino, eh. Chissà come sarebbe rimasto sapendo che intanto stavo ricevendo il seguente sms: Dai, adesso che tutti quei noiosi sono andati a dormire andiamocene a bere qualcosa io e te: è stata una serata sorprendente e sarebbe un peccato salutarsi così!
Sorprendente?! Un peccato?! In che senso? E intanto me lo immaginavo lì, col mio biglietto da visita in mano, appoggiato allo stipite della porta (ancora chiusa) di camera sua, a digitare freneticamente il messaggio quattro secondi esatti dopo che ero scesa dall’ascensore in compagnia dell’altro tremolante SP, quello del soppalco carinissimo.
Età? Il primo non arrivava ai trenta, il secondo veleggiava verso i settanta.

Perché una giornalista scientifica è una che viaggia parecchio per conferenze, congressi, festival, eventi e cose così. Ed è abituata a farlo, come è abituata agli indispensabili momenti sociali che li accompagnano: cena carina in compagnia dei relatori, quattro passi all’aperto se il clima lo consente, e poi il fatidico momento del rientro in albergo. Proprio lì lo SP comincia a proiettarsi in una commedia alla Billy Cristal e dimentica mitocondri, neutrini, crisi energetiche e fossili di ammonite. Per ricordarsi di essere nato maschio.
Ma proprio lì la professionalità della brava giornalista scientifica svela il suo lato più creativo, che stranamente non viene inserito mai nel curriculum: il piantala bimbo per cui non basta essere nata femmina. Ci vuole anche un po’ di know-how. Con lo SP bisogna lavorarci, è bene tenerselo amico, ed è disperatamente necessario che prima o poi ricominci a parlare di mitocondri, neutrini, crisi energetiche, fossili di ammonite. E infatti, a volte, cacciato via Billy Cristal a pedate, dello SP si può anche diventare amiche e riderci su. In genere, lo SP è innocuo. Persino simpatico. Spesso è solo un po’ ridicolo. E poi tanto lo sai che dodici ore più tardi rientrerà in carreggiata e tornerà a essere lo scienziato composto di sempre.

Poi ci sono gli approcci del giorno dopo, tipicamente via mail. Quelli con regalino. Quelli con invito. Quelli con proposta di lavoro (laddove lo SP tenta in tutti i modi di passare per scienziato volenteroso).
Cose che non sono mai successe: che a provarci fosse un collega, che a provarci fosse una donna, che a provarci fossi io (che sono una donna, occhei: intendo dire che con me nessuna scienziata ci ha mai provato, né io ci ho mai provato con nessuno). Una precisazione: non è che i colleghi non ci provino mai, sono uomini anche loro. Però non hanno la frenesia della serata evento con gran finale.

E allora forse ho una spiegazione.
Tempo fa ho conosciuto uno scienziato della mia età che era arrivato tardi a fare scienza, per cui stava finendo il PhD a più di trent’anni. E siccome era in Inghilterra, i suoi compagni di corso erano ragazzi di quasi dieci anni più giovani di lui. Ventenni, inglesi: presente? Mi diceva che questi erano noiosetti durante la settimana: precisi, ossessivi, studiosi e ambiziosi. Ma durante il weekend, liberi tutti, e tutti ubriachi fradici fino al lunedi mattina. E poi, mi spiegava, vanno ai congressi come alle gite di classe. Solo che essendo ormai ventenni, il momento liberatorio della gita di classe lo intepretano soprattutto come sesso e sesso, con chi si trova, con chi ne ha voglia, con chi può. Per cui, imbarazzato, mi spiegava: ai congressi i miei compagni di dottorato scopano come ricci, come se di norma, a casa, non lo facessero mai, e cercano di accoppiarsi in tutti i modi, si fidanzano, si sfidanzano, oppure si incontrano tra una sessione e un poster e... Insomma: lui sarà anche stato un po’ bigotto (però non è uno SP, lo certifico io), ma un’idea me l’ha data. Forse lo SP è semplicemente uno che vede la serata evento come una gita di classe, perché di norma non fa una vita tanto eccitante. E allora quella serata prova a godersela tutta, anche a costo di vergognarsene al mattino dopo. Beh, mi dispiace per lui, ma per me l’evento è semplicemente una roba di lavoro. Mentre la mia vita è divertente e stimolante e mi aspetta, come sempre, dalle parti di casa mia.

Tipi umani da giornalista scientifica / 1: lo Scienziato Volenteroso

Mi sembra di vederlo. Lì, chino sul suo computer, mentre rufola freneticamente in un sito internet straniero. Oppure al mattino, mentre mette giù il primo piede dal letto rimuginando su un discorso fatto con un amico la sera prima a cena. E mi sembra anche di sentirlo, quel discorso: i giornalisti italiani non conoscono la scienza, sono ignoranti e non sanno che cosa sia un mitocondrio. Così come mi sembra di vederlo, quel sito straniero, tutto pupazzetti colorati e bolle contenenti glosse che sbucano dai lati dello schermo. Perché lo Scienziato Volenteroso è esterofilo da matti. E dopo aver avuto la Grande Idea ti telefona, o ti manda una mail, e cerca di convincerti con tutto il suo Entusiasmo: dobbiamo fare qualcosa di divulgazione (1), ma qualcosa di nuovo (2) perché in Italia si parla male di scienza e i giornalisti sono ignoranti (3) e tu che sei diversa dalla massa mi devi aiutare (4). Allora, caro SV, mettiamo subito un po’ di cose in chiaro.

1. Siediti SV: la parola divulgazione a quelli come me fa venire i brividi. Oh, per carità, c’è gente che fa effettivamente divulgazione, ma non sono i giornalisti scientifici: quelli fanno i giornalisti scientifici, ti dispiace tanto? Perché divulgazione contiene in sé un’idea di pubblico un po’ passatella e arrogante, per cui la gente va elevata dal volgo. Un’idea per cui, cioè, c’è qualcuno che riconosce il deficit culturale della gente (ah, il mitocondrio: possibile che questi non sappiano che cos’è un mitocondrio?!) e lo colma, con un gesto filantropico di impronta educativa. Apri la bocca, chiudi gli occhi…! Peccato che la gente si educhi a scuola mentre sui giornali, alla radio, in tivù faccia un po’ quel che gli pare. Cambia canale se sente roba noiosa, pensa te, e scommetto che una monografica sul mitocondrio non me la perdonerebbe mai. Poi, sinceramente, a me non va proprio di pensare che chi mi ascolta sia ignorante, volgare: mi arrivano delle domande, a volte, che farebbero le pulci al più brillante dei ricercatori, figuriamoci a me. Io proprio non ho niente da insegnare: faccio un altro mestiere. E comunque, caro SV, fermati un attimo: che giornale leggi? Che radio ascolti? Che cosa hai guardato in tivù ieri sera? Lo sai che sei pubblico anche tu, vero? Che finché si parla di mitocondri sei imbattibile (hai appena comprato l’ultima edizione dell’Alberts, scommetto…), ma se leggi un trafiletto su una questione ambientale o di politica dello spazio ti bevi tutto come un babbeo? Allora cominciamo ad avere rispetto per chi non sa che cosa sia un mitocondrio ma magari sa tutto del Modello Standard, e facciamoci furbi. L’umiltà conviene. Anche perché…

2. Qualcosa di nuovo?! La tua non è proprio fame, eh? E scommetto che cosa stai per chiamare nuovo: un giornale online. Vero? Oppure un libro agile, scattante, aggiornato, con tutto l’Abc, che faccia chiarezza una volta per tutte. Beh, risiediti SV: tutta questa roba esiste già. Se fosse facile fare qualcosa di nuovo, sta’ tranquillo che io e i miei colleghi lo avremmo già fatto. Non che non siamo fallibili anche noi e poi, urca, sarei felicissima di vedere qualcosa di nuovo davvero. Ma esiste un mercato ed esistono dei liberi professionisti che con quel mercato si confrontano tutti i giorni. Non ti pare un po’ ingenuo rivolgerti a uno di loro (segnatamente, la povera sbenci, che risponde a tutti diligentemente) e dire che ci vuole qualcosa di nuovo?

3. E non ti pare un tantinello presuntuoso dire che un’intera categoria professionale è ignorante? Soprattutto se lo fai mostrando di non conoscerne i meccanismi. Insomma: a parte gli scienziati, del genere SV ma non solo, chi è che si permette mai di chiamare ignorante un mondo che non conosce e di cui è, nella maggior parte dei casi, ignaro fruitore? Occhei, ti posso dare ragione: leggo anch’io certi articoli di scienza che fanno rizzare i capelli. Ma mi sembra molto peggio leggere articoli di economia o di politica interna che contengono un sacco di scienza maltrattata, interviste sbagliate, interlocutori sbagliati. Semmai, potremmo allora riflettere sul fatto che da noi manca una tradizione solida nel giornalismo scientifico e che chi si occupa di politica e di economia non si è mai accorto (probabilmente ha fatto il classico e poi giurisprudenza, sai) che quella che ha per le mani non è solo materia di dibattito parlamentare ma anche un sacco di medicina. Ma ci stiamo lavorando. E se le cose ti sembrano peggiorare, è perché è tutta la comunicazione che è in un momentaccio e… Ma, insomma, lo sai che mestiere faccio io?! Allora perché mi dici, candidamente, che i giornalisti sono ignoranti?

4. Ah, io sono diversa. Perché ho una laurea in medicina e perché faccio questo mestiere con un po’ di consapevolezza. Grazie, ma non sono la sola, per fortuna. E adesso spiega meglio che cosa intendi per aiutarti. Ah, ecco. Lo sospettavo. Eppure… Hai capito che io lo faccio per mestiere, ci devo campare di questa roba, no? Come pensi di potermi proporre di lavorare gratis? Tra l’altro, chi lavora gratis sputtana il mercato, fa perdere di valore al lavoro. Si può fare, a volte, di dare un parere, di buttare un occhio, di fare un regalo: ma deve essere l’eccezione sennò finisce che davvero ci restano solo le Grandi Idee. Ma di Grandi Idee da SV ne ho viste morire a pacchi, e poi non sono le Grandi Idee che fanno cultura. Ma soprattutto, credimi, se il mercato dell’informazione culturale perde di valore non è una buona notizia per nessuno. Lasciaci combattere, dai. Semmai ti richiamo io.


SV: abbracciamoci! La vera verità è che io ti adoro, come ti adorano i miei colleghi. Ed evviva le Grandi Idee, anche se sono destinate a morire. Ci piaci proprio tanto e il mandarti una cortese letterina non ci costa niente. Anzi: ci dà un po’ di ottimismo, ogni tanto, ci mostra che c’è gente che vede un problema, ci ragiona su, e decide di rimboccarsi le maniche. Magari poi sbaglia. Ma basta il pensiero, ecco. E quindi grazie, a presto, semmai ti richiamo io.

(Questo post prova a inaugurare una serie sui tipi umani. Anche per non scrivere sempre le solite lagne sui dissesti economici del free lance culturale in Italia e giù a frignarsi addosso. Proverò a tenere la barra anche se so già che mi sta scappando dalle dita una lamentatio infinita per storie di contratti e di fatture mai versate con l’Iva che blablabla. Se scappa scappa, oh).