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O ce n’è o ce n’è state o ce n’è di rimpiattate: saltino fuori le “vere” partite Iva

Non sono sicurissima di avere capito e mi stupisce anche un po’ il silenzio sulla questione. Il ddl lavoro, sempre prodigo di sorprese e frizzanti novità, adesso stabilisce diciottomila euro all’anno di fatturato come soglia per definire la vera partita Iva? Ho sentito bene?
Ma, signori miei: con meno di diciottomila euro lordi all’anno chi è che ci vive? Uno che abita con babbo e mamma, forse, o un evasore fiscale. Di certo non io. E guardate che non è che abbia i rubinetti dorati e trecento paia di scarpe nell’armadio. Solo che ogni tanto faccio i conti. Diciottomila euro lordi all’anno, col mio regime di partita Iva, viene meno di mille euro al mese. Un bel po’ meno (in proporzione).
Ho chiesto in giro: nemmeno i miei amici camperebbero con diciottomila euro lordi all’anno. Tutti quelli che, monoclienti si sono trovati a fare i conti con lordi di quell’entità, prima o poi hanno capito di doversi dare da fare e hanno raccattato altri introiti grazie ai quali pagare le bollette e la spesa. Non mi sembra il caso di punirli per questo.
Il problema mi pare sempre lo stesso: si guarda il dito e si dimentica la Luna. La questione non deve essere l’individuazione del lavoratore con una falsa partita Iva: il problema deve essere l’individuazione dell’azienda che fa lavorare la gente a partita Iva ma poi la tratta da dipendente. Anzi: prende il meglio delle due condizioni e le volge a suo beneficio.
Tipo (ogni riferimento a fatti e situazioni realmente accaduti è casuale, eh): non si capisce da quando cominci il contratto (maggio, giugno, luglio, settembre? Agosto giammai: gli amministrativi sono in ferie) né quando finisca (poi ci si aggiusta), non si sa quale sarà il compenso (che domanda venale, vergogna) e comunque non lo si potrà contrattare. Quello che è certo è che orari e mansioni saranno le stesse di un dipendente, ma con più variabili. E sta’ pur tranquillo che anche mentre sarai in attesa del contratto ti verranno richieste prestazioni di avvicinamento e tu non potrai rifiutare: sei parte della squadra, no?
Ora, non so come si possano individuare queste aziende. Ci vorrebbe davvero una bella pensata e un grande sforzo di fantasia. Eh, accidenti. Proprio non saprei.
Ma insisto: perché chiedere al lavoratore a partita Iva di certificare la propria veridicità (io sono una partita Iva) visto che uno diventa vero o falso solo in relazione al cliente che ha davanti? Non è mica un fatto ontologico, è una questione di relazione. E perché far finta di non sapere che anche un fatturato di ventiquattro o, toh, ventottomila euro all’anno (ricordo che oltre alle tasse, alla previdenza, alle gabelle per gli ordini vari, ci si deve pagare il commercialista, e poi quello non è il fatturato di chi ogni anno può scaricare l’acquisto di tre o quattro computer o di un auto da corsa, per dire) sono introiti alle soglie della dignità per un lavoratore adulto?
Aspettiamo con ansia la prossima proposta su come distinguere una falsa partita Iva: da come si veste (di beige), da come mangia (con i nonni), da come manda i bambini a scuola (con i nonni), da dove passa le vacanze (con i nonni).

I nostri antenati: per una storia condivisa della freelancità

Il nostro più antico antenato di cui si abbiano notizie si chiamava Paolo.
Paolo, o Saulo, di cognome faceva Tarso (come le ossa del piede).
Paolo Tarso è stato probabilmente il più grande addetto stampa della storia: il suo datore di lavoro trasse grande fama dal lavoro di branding di Paolo, e i suoi comunicati stampa, scritti sottoforma di lettera, vengono diffusi e letti ancora oggi in pubblico.
Non conosciamo esattamente la forma contrattuale con cui Paolo Tarso ricevette l’incarico, ma non abbiamo mai sentito parlare esplicitamente di assunzione come invece è successo per altri lavoratori della stessa azienda.

 

Nella nostra galleria degli antenati, spicca per determinazione un professionista che ha preferito mantenersi anonimo e che indicheremo col soprannome di Pifferaio.
Dopo aver svolto regolarmente il proprio lavoro temporaneo per un’amministrazione pubblica (segnatamente il comune di Hamelin, come il Pifferaio stesso ha coraggiosamente denunciato), e nonostante le sue ripetute sollecitazioni, non è stato pagato.
Per questo ha portato avanti una protesta decisa ed eclatante, riunendo in assemblea tutti i giovani lavoratori della stessa amministrazione e convincendoli ad abbandonare la propria posizione.

 

Meno nobile la figura di Jacopo Robusti, detto il Tintoretto.
Sebbene professionista di grandi capacità, per ottenere incarichi di lavoro e soprattutto ostacolare la concorrenza prestava la propria opera a prezzi molto inferiori a quelli di mercato, mettendo in atto una vera e propria azione di dumping.
Si racconta in particolare che Jacopo abbia presentato un’opera già finita alla commissione della Scuola Grande di San Rocco, laddove la norma concorsuale prevedeva la consegna di un semplice bozzetto, scavalcando in questo modo gli altri candidati e costringendo la committenza ad accettare il dono di un’opera già terminata.

 

To be continued…

Elsa, i’ vorrei che tu e Iva e io…

Gentile ministro Fornero,
vorrei invitarla a cena.
Lei ha l’età dei miei genitori e io quella di sua figlia. Non solo: mi chiamo Silvia, come sua figlia, e come lei ho studiato medicina. E sono ben educata e non lascio niente nel piatto. Sono sicura che sarebbe facilissimo capirsi e trovarsi simpatiche.
Intanto, se ne ha voglia, tra l’antipasto e la panna cotta (o il tiramisù, scelga lei), le racconterei due cose sulla mia partita Iva.
Solo sulla mia, sia chiaro: quelli come me sono non-rappresentabili per definizione.
Non so, forse potrebbe scoprire di avere qualcosa da imparare, come ogni tanto capita ai miei genitori. E’ buffo, sa: loro vivono la mia partita Iva come una malattia infantile che non guarisce mai, uno strano esantema che si è tatuato sulla mia faccia e mi rende un po’ diversa da loro, ma non per questo meno disposta alla ricerca della felicità, magari qualcosa su cui stare all’erta, come un handicap leggero e ben vissuto. Finché non succedono guai, sono solo un po’ bislacca: e allora speriamo che non succedano guai.

Per esempio, le racconterei quanta rabbia fa quando ti chiedono la fattura ma poi non ti pagano per mesi. E rabbia è poco.
Siccome chi è professionista (attenta a questo passaggio) paga l’Iva a ogni trimestre, ti può capitare di anticipare diverse migliaia di euro in un trimestre in cui non hai incassato niente, come sta capitando a me in questi giorni.
Non è che se sei una partita Iva e sei professionista hai maggiori tutele, anzi. Anzi. Non sto incassando niente e dovrò anticipare un sacco di tasse.
Ma i miei amici che non sono iscritti a nessun albo professionale (mettiamo, i laureati in filosofia, tipo, o in fisica) adesso non dormono la notte per la norma dei sei mesi di contratti su un anno con un unico cliente: adesso quello che temono è che le aziende per cui lavorano si limiteranno a contrattualizzarli sei mesi. Punto. Mica a regolarizzarli.
Quelli come me, intanto, potranno tranquillamente lavorare con la cosiddetta falsa-partita-Iva. Che non è, attenzione, solo essere monocliente, cioè fatturare (quasi) solo per un unico cliente all’anno, ma è più banalmente lavorare per qualcuno che, anche solo per due mesi, ti fa firmare un contratto liberoprofessionale ma poi ti chiede lavori con tempi e mansioni di un dipendente. Senza tutto il resto.
Ed è difficile che, potendolo fare, avendone la fortuna e gli strumenti, non cercherò di lavorare per altri nei finesettimana o dopo cena: ha presente che paura viene quando d’un tratto ti escono cinquemila euro che, forse, recupererai nei mesi successivi, chissà quando?
Allora giù a cercare altri clienti, diamoci da fare: mai e poi mai voglio trovarmi monocliente.

Noi professionisti e loro non professionisti non abbiamo mai pensato di essere rivali. O meglio: noi partite Iva siamo per definizione l’una rivale dell’altra, sennò non ci avrebbero inventato. Sennò non sarebbe così facile tenerci buoni, sennò non riusciremmo a stare zitti. Ma a questa distinzione non avrei mai pensato.
I miei colleghi, comunque li consideri, sono qualcuno iscritto a un albo e qualcuno no, ma le assicuro che non ho mai visto contratti diversi tra i miei e i loro. Da adesso cominceremo a immaginarci nemici, perché se a lui lo contrattualizzano sei mesi forse a me ne danno dodici, però se non mi pagano puntualmente sono guai, e così via.
Che fatica, ministro.

Sa che cosa? A me la partita Iva piace. Non saprei spiegarle bene perché. Ci sono cresciuta: è la mia identità professionale. E infatti non è lei il problema.
E’ l’azienda, l’istituto, l’università (pubblici, nella maggioranza dei casi) che non paga per mesi e mesi, e ti lascia senza nessuna possibilità di ribellarti, il problema. E’ questo paese in cui una come me ha dovuto spiegare, più volte, all’agenzia delle entrate come ha fatto a comprare casa (ha presente quel signore chiamato babbo?), dovendo contestualmente dimostrare di non possedere cavalli da corsa, elicotteri e fuoribordo, ma solo una bicicletta e un abbonamento dell’Atac, mentre il parrucchiere e il pizzaiolo di fiducia non le hanno mai fatto lo scontrino. E’ la sensazione di abbandono e incomprensione che mi monta addosso quando leggo i giornali. E’ questa cosa per cui si parla per mesi dell’articolo 18 quando, fatti e rifatti i calcoli, conosco solo un mio coetaneo che è direttamente toccato dalla questione.
Vabbè, ministro. Vado a sistemare la contabilità del trimestre, ché domani devo spedirla alla commercialista (siamo già al 26 del mese!).
Se accetta il mio invito a cena, però, non voglio storie: offro io. Tanto mi faccio fare fattura, e poi ci scarico l’Iva.

Partite Iva, non facciamoci confondere le idee. Il problema non è (solo) il monocliente

Già che ho la bocca aperta vorrei dire la mia idea su questa faccenda delle partite Iva vere e false.
Credo che la questione chiave non debba essere se uno è monocliente o no.
Cioè: se hai la partita Iva come tu fossi un idraulico e però fai una fattura al mese, tutti i mesi, allo stesso cliente, di sicuro c’è un grosso problema: nessun indraulico lavora in pianta stabile per un unico cliente e probabilmente la tua partita Iva nasconde un rapporto di lavoro che ha tutto della dipendenza, tranne i diritti e le garanzie che a un dipendente vero sono accordate di necessità.
Ma se non sei monocliente il busillis può esserci lo stesso.
Perché il problema non è che cosa ci fai tu con la tua partita Iva.
Il problema è che cosa ci fanno i tuoi clienti.
Mi spiego: se uno dei tuoi clienti ti propone un contratto liberoprofessionale di, poniamo, tre mesi, e in quei tre mesi ti fa lavorare con tempi e mansioni analoghi a quelli di un dipendente (anche un dipendente a tempo determinato, intendo), ma senza i blablabla che sappiamo bene (malattia, gravidanza, mensa, ferie, straordinari e soprattutto con la possibilità di lasciarti a casa a metà contratto, e lasciandoti senza niente nel caso i tuoi altri n clienti non arrivino per qualche mese e blablabla), c’è lo stesso qualcosa che non va.
Soprattutto se poi questi mesi di contratto liberoprofessionale diventano otto, nove, dieci, per sei, sette, otto anni. E indipendentemente dal fatto che tu passi le notti e i finesettimana a fare altre cose per altri clienti, per i quali poi regolarmente fatturi.
Se tu fossi un idraulico le cose non andrebbero così.
Perché quando ho fatto i lavori in casa, l’idraulico è stato qui un paio di mesi.
Ma intanto gestiva da sé i suoi tempi di lavoro (con gli altri clienti e con se stesso, immagino), non controllavo i suoi orari, faceva da sé le sue cose in totale autonomia: avevamo detto due mesi e due mesi sono stati. E, dettaglio non indifferente, prima che cominciasse a spaccarmi i muri abbiamo contrattato il suo compenso.
Ecco: io, per me, non voglio il posto fisso. Io voglio diventare un idraulico.
Oppure non voglio far finta di essere un idraulico quando, anche solo per tre mesi, anche solo per un solo cliente, passo le mie giornate a lavorare con i tempi e i modi del mio compagno di scrivania, che invece è, non si capisce bene perché, un dipendente.
Stop, torno a chiudere la bocca.
Sennò attacco col distinguo tra professionisti e non professionisti che proprio non si capisce perché debba esistere.

Io tossica: come superare il rebound da fine contratto senza far uso di droghe pesanti

Evidentemente sono una drogata.
Quando finisce un contratto, quello per cui hai lavorato a rotta di collo per settimane, mesi, dedicandogli l’85% del tempo-lavoro, accumulando per momenti migliori gli altri lavori – che a quel punto chiami lavoretti per giustificare la scarsa attenzione che dedichi loro – sognando tutte le notti quello che dovrai fare o che avresti dovuto fare o il pasticcio che ti sta scoppiando in mano per quel lavoro lì, solo quello lì, e per mesi non vivi per altro che per riuscire a imbroccare quella cosa e solo di quello vivi e… insomma: quando finisce un contratto pesante si vive un rebound simile a quello del depresso che sospende i farmaci da un giorno all’altro.
Stessa cosa. Stesse occhiaie, stessa piangina, stessa abulia.
E hai voglia a dire che finalmente avrò il tempo per tutti i miei altri lavori: per qualche giorno la tua missione dev’essere la ricerca di endorfine, altrimenti finisci sul divano a credere di leggere un libro e ad aspettare che qualcuno ti stani.

Ormai ci sono abituata e sono anche bravina ad anticiparlo, il rebound. E infatti stavolta ho una lista di cose da fare lunga così che comprende viaggi in lavanderia e persino dal corniciaio, turismi scientifici in altre città, pranzi, mostre, assemblee e un sacco di burocrazia di quella tosta, con i miei due conti correnti e altre amenità.
I lavoretti piano piano partono e vederli partire fa bene all’umore, ma la situazione è fragile: basta un dettaglio spiacevole in una giornata decente per far affogare il cervello tra i pensieri e il risultato è che mi viene la faccia cerea, lo sguardo assente, taccio per ore e sembro stonata. In realtà sto solo dialogando con me stessa, al ritmo forsennato che i miei neuroni sanno tenere quando lavorano anche se adesso non lavorano quasi più.
Gli amici sopportano, qualcuno si offende, qualcuno prova a fare il pagliaccio. I lavoretti aspettano serafici: loro sì che mi sanno capire.

E poi ci sono le ginnastica-related endorphins: ieri sono andata addirittura a un corso di GAG, cioè femmine in ansia per la prova costume e pensionate che al mattino hanno voglia di mettersi una tutina aderente e di guardarti sfacciate, tutte lì a fare flessioni e affondi mentre una certa Sara strilla Forzaaaaa! Che finché si è trattato di usare i muscoli, ok. Ma quando ci hanno fatto fare un po’ di esercizi aerobici a tempo di musica sono ripiombata nella sindrome del ragazzo-coccodè e anche le endorfine mi hanno guardato con perplessità.
Oggi sarà il turno delle bicicletta-related endorphins. Credo che nel pomeriggio mi concederò un po’ di gelato-related endorphins. Stasera avevo una cenetta-related endorphins ma forse mi salta. Recupererò con le birretta-related endorphins, che poi sono le più efficaci.

Ho scoperto da un amico economista che il problema della mia tossicodipendenza si chiama search-on-the-job. Cioè mentre lavoro cerco altro lavoro, e organizzo i prossimi lavori mentre sto ancora lavorando per un altro cliente. E se sono lì, seduta, e questo d’un tratto mi leva la sedia da sotto al sedere non posso cedere: prendo la culata, ma non smetto di dedicarmi agli altri. Sennò crollo. In senso professionale.
Sono anni che vivo così, anche da prima di saper dire search-on-the-job, e credo di poter essere orgogliosa soprattutto di una cosa: del mio ingiustificato equilibrio mentale. In fondo, chissà perché, tengo botta alla grande. Sarà grazie a un training niente male che risale a un paio di decenni fa.

Da adolescente, una parente stretta con problemi della condotta alimentare mi faceva pesare e poi commentava ad alta voce Beh, i tuoi chili ce li hai eh… a me, che non sono mai stata nemmeno paffuta. Poi mi parlava di cibo e mi osservava mentre mangiavo: a passeggiarci in città era imbarazzante la sua manifesta ossessione per la ciccia di chi ci camminava accanto. E una volta, mentre, sedicenne, provavo un paio di pantaloni alla Benetton, si affacciò nel camerino e mi sussurrò, ridacchiando complice: L’hai visto come ti ha guardato la commessa?! Dev’essere invidiosa del tuo bel personalino, mentre lei è così grassa…
Non ho mai fatto una dieta e ho sempre mangiato con gusto e soddisfazione, nonostante tutto questo.
E anche adesso, nel mio search-on-the-job, mantengo un invidiabile personalino e mi accontento delle endorfine che mi passa il pusher qua su in cima.
Però è faticoso, vi assicuro. Soprattutto verso le quattro del mattino.

Adesso basta: torno ai lavoretti e tra un’ora e mezzo inforco la bici. Ancora qualche giorno e sarò fuori dal tunnel. Tornerò a dire di me che sono una vera partita Iva, una Marcegaglia della comunicazione della scienza, un’imprenditrice di me stessa, una che vive a testa alta di tanti contratti e non di uno grande e tanti piccini, eh. (…).
Intanto cercate di capirmi e scusatemi se sono assente o giusto un po’ scontrosa. Sto a ròta, come diciamo noi partite Iva non-monocliente-ma-quasi.

(Dimenticavo le blog-related endorphins: sto per inaugurare una nuova serie dal titolo I nostri antenati. Gli antenati del freelance, intendo. Si accettano suggerimenti).

Caffellatte e contabilità: oggi mi sono svegliata tranquilla e ho curiosato nel mio conto in banca

Ti fanno: adesso puoi prenderti qualche giorno di riposo, ti sei stressata troppo e ora un po’ di tranquillità te la meriti davvero.
Allora ti alzi con calma (con calma, ma stai già pensando a quel lavoro da chiudere entro domenica, a quelle tre cosette da scrivere in corsa, a un paio di telefonate, due proposte, un appuntamento, un festival della scienza con tre moderazioni in due giorni e a un po’ di fatti tuoi tipo lavanderia, poste, palestra, riunione di condominio). E decidi di cominciare la settimana detta di tranquillità facendo quello che non riesci a fare da un po’, e che dovrebbe anche gratificarti, cioè il riepilogo della contabilità.
Dunque: a gennaio ho fatto sei fatture, ma una l’ho dovuta annullare e fanno cinque.
Nessuna, nessuna, è stata ancora pagata.
In compenso a fine febbraio ho ricevuto il pagamento di una fattura fatta a dicembre, cioè nell’anno fiscale precedente.
La mia contabilità è ferma da tre mesi. Dio come è tranquilla, lei.

In pratica questo significa che (anche per colpa mia, per carità) da novembre lavoro per una grande azienda pubblica (ehm) senza vedere una lira, anzi: avendo anticipato qualche migliaio di euro di spese. Sono stata rassicurata: il primo dei quattro frammenti di pagamento sta arrivando, ed è quello che contiene il grosso dei rimborsi più due spiccioli di compenso. Gli altri tre (anche per colpa mia, ma insomma) dovrò aspettarli ancora un po’.
Significa anche che i lavoretti per il grande gruppo editoriale (ehm) effettuati nel 2011 non solo non sono stati ancora pagati, ma nemmeno mi hanno preannunciato il pagamento chiedendomi formalmente la fattura. Ho sollecitato e può darsi che sia anche colpa mia: ora cerchiamo di risolvere la faccenda.
Mancano anche i soldi del grande istituto di ricerca, della grande università e del grande progetto finanziato dal grande gruppo industriale. Forse c’è un po’ di colpa mia, non so: intanto aspetto.

A me sembrava di aver lavorato bene e di essere stata puntuale e precisa. Sono un pesciolino piccolo piccolo, ma mi do da fare. E lo so che ci vuole pazienza, che si tratta di contabilità enormi e difficili, che i pagamenti si fanno a tre mesi (no?!), che se io ritardo nella consegna della fattura (?!) non posso poi lamentarmi, che entro fine marzo sta’ tranquilla: arriva tutto. Lo so, è vero. Stamani mi sono alzata volenterosa, e a tutto questo non ci avevo pensato. Se ci avessi pensato avrei di sicuro dormito fino a fine marzo. Tranquilla.

Fatture, bollette, contabilità e le altre ragazze del mucchio

La piccola Marcegaglia della comunicazione della scienza stamani resta a casa. Deve riordinare la contabilità: il trimestre è finito e lei, gonfia di rassegnato orgoglio per il suo lavoro così bello e tedioso insieme, aprirà il computer e chiamerà accanto a sé la contabile dell’ombra di se stessa.
Avanti.

Ci sono le mie fatture. Facile. Dalla 24 alla 32. Rileggerle e verificarne date e numeri. Sono corretti? Speriamo. Vanno solo stampate: segnarlo tra le cose da fare domani.
Ci sono i rimborsi per la Rai, la mia nuova croce. Dividerli trasferta per trasferta, (mettere tra le cose da) fotocopiare le ricevute di alberghi, ristoranti e spostamenti. Le fotocopie finiranno alla Rai, gli originali alla commercialista. Attenta a non confonderti e imbusta ogni viaggio in una busta a parte. Compilare il modulone. Anzi: i moduloni. Contare tutti i pasti: che si fa? Dove ho mangiato? Lo scontrino? Come ci ero arrivata all’aeroporto? Dove sarà la ricevuta del taxi? E chi se lo ricorda?
La piccola Marcegaglia e la contabile della sua ombra non si scoraggiano. Capita a tutti di sbagliare e poi pazienza per questi venti euro. O quaranta. Pazienza lo stesso. Pazienza.

E ora le utenze. Le bollette, cioè. Sicuramente ne manca qualcuna. Però, guarda che brava, stavolta quella del condominio è qua. Alcune bollette sono domiciliate, altre le pago online. Allegare ricevuta. Ops: quella della Telecom non è stata pagata.
Fare finta di niente e mettere tutto in un’altra busta. L’ottava, per adesso. Pagare pagherò domani.
Le altre spese: le lenti a contatto (andranno nell’Iva o nell’Irpef? Boh, mai capito), l’affare del computer, il telefonino nuovo. I miei viaggi. I miei ristoranti. Questa fattura è sbagliata: c’è ancora l’indirizzo di casa dei miei. Scrivere una mail e farla rifare.
E questa roba che cos’è? Dal fondo del cassetto sono saltate fuori quattro certificazioni dei compensi del 2010! Fare finta di niente e allegare alle cose da consegnare alla commercialista.
I diritti d’autore. Avrei dovuto stampare quella mail? E non devo consegnarli a fine anno, piuttosto che a fine trimestre? E se fine anno e fine trimestre coincidono?
Tirem’innanz.

Arriva il momento del controllone bombosparone del filone excellone, quello con i lavori fatti, con accanto il relativo numero di fattura, con accanto le note (farsi rimborsare treno, non accettare mai più lavori, referente G.F. detto bruttamerda) e accanto la data del pagamento. A ogni lavoro deve corrispondere una fattura a cui deve corrispondere un pagamento. Verificare sul conto corrente affari (quello da cui ogni tanto pago il mio unico dipendente, cioè me stessa, attraverso un giroconto sul conto corrente denominato personale: il massimo dell’onanismo elettronico).
Non è così? Non c’è il pagamento?! Si principi a scrivere una mail cortese ma ferma in cui si sollecita il pagamento. Eccheccazzo.

La piccola Marcegaglia e la contabile della sua ombra adesso hanno accanto un bodyguard pelato pronto a menare le mani. Gentile cliente, sto chiudendo la contabilità e non mi risulta il pagamento della fattura… Il bodyguard si scrocchia le dita, la contabile si accorge di un altro erroretto e tace per amor di pace, la Marcegaglina dà ordine di attaccare con un’altra mail: gentile università, posso finalmente fatturare quel cacchio di lavoro che ho disgraziatamente accettato in un momento di horror vacui e che…
Qui, insieme alla Marcegaglina, alla contabile e al bodyguard, arriva pure l’infermiere di psichiatria a farmi compagnia. Va bene, faccio la brava, cancello le parolacce. L’infermiere mi guarda benevolo, la contabile china la testa, il bodyguard si gratta la testa e la Marcegaglietta ha uno sguardo piccato.
Forse, quando cominciamo a essere in quattro, è arrivato il momento di fare pausa.

“La solitudine del free lance” o “Io contratto da sola”.

Sei lì, a casa, e lavori al computer. E come unico sfogo cazzerelloso hai Facebook. Questa è una solitudine facile e non la chiameresti nemmeno così.
Sei lì, in aeroporto. L’aereo è in ritardo e tu smaltisci le mail. Questa è una solitudine piacevole, o almeno necessaria. E poi tanto passa.
Anche quando la sera non esci e ti prepari un panino mentre guardi la tivù, o meglio: ti prepari un panino mentre la tivù parla e tu continui a battere sulla tastiera del computer. Quella è una bolla di solitudine che ti godi un sacco.
Però poi c’è la solitudine della contrattazione: quanto mi paga quando mi paga? Questa è una solitudine in cui non hai uno straccio di sindacalista a cui rivolgerti ma nemmeno un cavolo di collega che ci sia passato prima di te, e comunque nessuno ti direbbe la verità, e comunque tu stessa non vuoi dire niente in giro, e comunque c’è chi ti consiglia di non parlare a nessuno. E nel migliore dei casi aggiunge te lo dico come lo direi a una figlia…

Nel migliore dei casi avverto crescere dentro di me un’insensata forma di gratitudine seguita da un muto stupore.
Ma… Come a una figlia?! Proviamo a ricordarci un po’ del ruolo che ho in questa faccenda (che non ha niente a che fare con la famiglia finché non comincerò a piagnucolare tengo famiglia… che non è vero, ma lui che ne sa?).
Io sono una libera professionista, di quelle con la libertà obbligatoria. E contratto da sola per necessità. Perché non ho alternative. Perché il lavoro che devo fare per lui lo faccio da sola. Perché, come un idraulico, decido con lui il valore del mio lavoro.
Vabbè: nel caso dell’idraulico, in ragione della sua grande professionalità, si lascia che il primo a sparare un prezzo sia il professionista, poi si propone di meno, poi ci si accorda a metà strada. Nel caso mio, è lui il primo a dire abbiamo abbassato i compensi o non possiamo pagarti più di così e semmai sarò io a dire non si può fare un po’ di più? E alla fine no, non si può fare un po’ di più.
Ma sono una libera professionista che a lui serve per fare quella cosa là. Non sua figlia.

Ecco: io contratto da sola.
Anche il mio collega contratta da solo.
Anche quello là in fondo contratta da solo. E l’amica sua. E quei due che mi stanno un po’ sulle balle. E quello che conosce quella e che lavora per lo stesso tizio per cui lavoro io. E quella presuntuosa. E il suo compagnuccio. E quel genio dell’amico mio. E l’altro che una volta… Tutti. Tutti contrattiamo da soli.
E non ci diciamo niente.
Abbiamo tutti il sospetto che se quello là in fondo sapesse quanto pagano noi, poi magari pretenderebbe di essere pagato uguale. Alla fine la coperta si farebbe corta, quindi a noi toglierebbero qualcosa per dare qualcosa a lui, appiattendo i compensi a un livello basso. Se il gioco fosse al rialzo ne saremmo felici. Ma se invece quello là in fondo prendesse un briciolo più di noi senza possibilità di adeguamento del nostro compenso al suo?
Attenzione al rosicometro.
E attenzione all’effetto paradossale della storia: proprio noi che siamo liberi professionisti dovremmo essere felici di sapere che c’è chi è pagato un po’ di più e chi un po’ di meno, perché potrebbe (potrebbe) significare che si valorizzano le competenze e che il mercato è davvero libero. Proprio come nel mondo dorato dell’idraulica a domicilio.

Invece no. La nostra è una professione intellettuale: mica possiamo pretendere di essere noi a fissare il prezzo.
Ma proprio perché ci vantiamo di fare una professione intellettuale forse potremmo provare a farci furbi. Il sistema è fatto apposta perché non sia possibile una forma di aggregazione tra noi di tipo corporativo, capace di tutelarci di fronte a problemi di salario. Siamo tutti rivali, siamo tutti idraulici.
Quindi il valore del nostro lavoro dipende dal prezzo che il mercato gli dà. A differenza del lavoro dipendente, non è fissato a priori, e sta a noi difenderlo. Solo noi possiamo farlo. Difendendo il valore del lavoro di ciascuno di noi si difende il valore del lavoro intellettuale di tutti. Non c’è bisogno di dirsi quanto si prende (hai visto mai…) ma di proteggersi sì e di farlo con un minimo di coscienza di categoria. Anche se quello insiste a dire di considerarmi sua figlia, mentre la sua figlia biologica magari fa proprio l’idraulica, beata lei.

Ah, nel peggiore dei casi? Il peggiore dei casi è quello che si configura quando la contrattazione assume la forma detta del questurino. Conosco una persona abilissima nel dirigerla così. Ti chiama e ti fa Non ti conviene rifiutare, guarda che tutti gli altri hanno già accettato… Come il poliziotto cattivo dei film, quello che dice al delinquente di turno guarda che il tuo complice ha già confessato… E tu sei lì, non hai tempo, non hai cervello, sei disorientata e preoccupata. Ti mettono fretta. Poi che cosa dovresti fare: chiedere in giro? Non sia mai… e confessi, pardon: accetti. Lì la palma della cretineria te la meriti tutta.
In quei casi devi fermarti, prepararti un panino mentre guardi la tivvù, e pensare che se confessi, ripardon: accetti, ti rendi responsabile di una bella sfiga per tutti gli altri. Se nel frattempo sei riuscito a buttar via il rosicometro, capisci bene che conviene anche a te.

Fig. 1: Il rosicometro

Dieci euro a pezzo: un altro pacato contributo alla discussione (e giù le mani)

Sono stata alla manifestazione della Cgil, quella dei lavoratori pubblici e della conoscenza. Un sacco di gente lì per dire che vogliamo il posto fisso, il posto garantito, i cosiddetti diritti e le altre storie: la ricerca pubblica, l’università e i cervelli di rientro. Come dieci anni fa: tutti sorridenti al sole, la Repubblica in tasca, una banda di ottoni alle spalle che suona Bella Ciao, gente col sigaro e vecchi amici che si riconoscono tra la folla. Ma io non so se ci riesco più.
Mi viene la tristezza. Mi viene da dire che tanto abbiamo perso. Che è patetico continuare: siamo i girotondi malreloaded, Vecchioni ha vinto Sanremo e noi continuiamo a pensare di essere la parte migliore dell’Italia. Abbiamo sbagliato tutto, perché insistiamo?
Per fortuna poi c’è qualcuno che riattacca a dirmi che non devo prendermela con chi si fa pagare dieci euro a pezzo e mi ritorna il buonumore.

Mi spiego meglio. Non volevo dire che chi si fa pagare dieci euro a pezzo è causa, oggi, di un mercato dell’informazione che fa schifo. Volevo dire che potrebbe esserne causa domani. E che invece, oggi, potrebbe essere una delle soluzioni. O che almeno potrebbe provare a diventarlo. Sarebbe figo, no?
Cioè: non possiamo aspettarci una soluzione dall’alto. Non ci credo tanto all’arrivo di un calmiere imposto dalla politica, a un meccanismo di controlli, a un proclama dell’Ordine (anche perché, per esempio, a una come me l’Ordine non può fare né bene né male, non essendo iscritta pur facendo il mestiere come tanti altri – e mica l’ho scelto io, è semplicemente successo…). Vorrei piuttosto pensare a una soluzione dal basso, magari mossa da una miscela esplosiva di sentimenti come l’orgoglio e il senso di responsabilità.
L’orgoglio per dirsi: non sono un ragazzino che è qui per imparare, so fare questo lavoro e i miei pezzi a quello lì servono come l’aria. Me li deve pagare. E poi non posso accettare di non riuscire a vivere del mio lavoro, alla mia età.
Il senso di reponsabilità per dire: non accetterò di degradare il lavoro giornalistico, di rovinare il mercato (per il meccanismo al ribasso che blablabla) e di ingannare il pubblico. In più, non posso far diventare questo mestiere un mestiere da figli di papà, cioè da gente che si può permettere di guadagnare qualche centinaio di euro al mese perché tanto ci sono quei due signori lì che gli pagano l’affitto.
E poi magari accorgersi che, maporcapaletta, sono un cittadino anch’io e difendere il lavoro di chi gestisce l’informazione è quasi un dovere verso me stesso. Dovrei farlo anche se facessi un altro lavoro. Tipo: se facessi l’insegnante. Se facessi il medico. Se facessi l’autista dei mezzi pubblici. Se facessi l’avvocato. Illuminazione.

Eccomi ripiombata tra le facce sorridenti di questa manifestazione di anime belle. Ci sono i ricercatori, gli scienziati, ci sono i professori delle scuole, i lavoratori del sociale. Vedo anche qualcuno che si occupa di eventi culturali, mi pare di riconoscerli. Ci saranno di sicuro anche le mille forme di giornalisti, comunicatori, lavoratori dell’informazione e della cultura, quelli che mi assomigliano.
Forse sarei un po’ meno malinconica se qui qualcuno di loro salisse sul palco rinunciando a dire che vogliamo il posto fisso, i diritti, le garanzie e blablabla, che la nostra generazione (più un po’ di quarantenni avanzati) non si può permettere un mutuo e che siamo i nuovi poveri (che sarà anche vero, ma che palle).
Sarei meno malinconica se sentissi dire una cosa di disarmante semplicità tipo: “il mio lavoro serve a questo, io do il mio contributo alla società in questo modo, conviene a tutti difenderlo. E allora da domani rifiuterò di farmi pagare così poco, anche a costo di andare a servire in pizzeria, e lo farò per la nostra collettività. Lo farò, cioè, per tutti noi, anche per quelli là in fondo col camice bianco che continuano a chiedere l’assunzione perché sono dieci anni che sono in fila all’università e poi aggiungono in questo paese ci vuole meritocrazia (…). Lo farò per tutti perché il mio lavoro è un lavoro importante. Corollario: anche il vostro lo è e vi invito a fare altrettanto, grazie”.
Il mondo è cambiato, adesso siamo tutti lavoratori a tempo o con la partita Iva. Ma questo non significa che siamo cittadini a tempo o che non abbiamo responsabilità a lungo termine verso la società.
Li guardo, sto in un angolo: mi annoia il vittimismo, mi vien voglia di andarmene. Poi boh, sarà che ho il mio orgoglio, anche troppo. Oppure sarà che mi viene da sghignazzare. Li vedo e penso che saremo qui tra altri dieci anni, di nuovo a chiedere cose anacronistiche e un po’ miopi. Ma io, a proposito di girotondi, mi sentirò ancora, come oggi, una splendida partita Iva.


Segnalo un blog maggiore che dice le stesse cose (… insomma, in un certo senso…) ma dalla prospettiva di chi sta dentro ai giornali. Da leggere tutto: Piovono rane di Alessandro Gilioli sul giornalismo precario.

Ma sì, facciamo pubblicità. Stasera a Presa diretta: Lavoro 2.0, tra atipici, precari, finte partite Iva

“GENERAZIONE SFRUTTATA” di Riccardo Iacona
e di Francesca Barzini, Domenico Iannacone

Stasera alle ore 21,30 su RAITRE

Quanti sono i precari in Italia? Quanto lavorano per paghe da fame?  E chi se ne approfitta? Chi consente lo sfruttamento di quanti  non hanno alcun potere contrattuale, ma solo preziose competenze da offrire?

Il 9 aprile di quest’anno  i precari italiani si sono dati appuntamento in piazza per protestare contro una gravissima ingiustizia sociale.  Per la prima volta in molte città d’Italia rabbia e malcontento sono usciti dagli infiniti blog e dai siti di internet per trovare forma politica. La rassegnazione sembra finita per sempre.

Presadiretta ha deciso di dar voce alle migliaia e migliaia di persone che hanno perso il diritto al futuro, giovani  che sono costretti a piegarsi ai contratti a termine, di cui esistono infinite tipologie; ai disoccupati che per  cercare di lavorare  sono costretti  ad aprire  partite Iva che in realtà nascondono un rapporto di lavoro subordinato; ai ragazzi che si sottopongono a infiniti  stage che in realtà nascondono un vero e proprio impiego e non daranno loro alcun reale accesso al mercato del lavoro.

La redazione di Presadiretta ha compiuto un enorme lavoro di ricerca per individuare tutti gli stratagemmi messi in atto dai datori di lavoro.  Ci sono, infatti, infiniti modi per sfruttare la disperazione di chi non ha  lavoro.  E molto spesso anche la Pubblica Amministrazione si avvale di questo tipo di contratti capestro. Un’intera generazione  non maturerà mai il diritto alla pensione, o  dovrà sopravvivere con pochi spiccioli.

Riccardo Iacona è andato a Barcellona dove la comunità più numerosa di stranieri è composta da molti giovani italiani che sono fuggiti in Spagna per cercare migliori opportunità professionali.

Ne è uscito un quadro sconvolgente, un vero proprio far west normativo che nessuno vuole correggere e che  consente di non pagare,  o sottopagare i dipendenti. Un universo in cui le commesse sono finte stagiste, archeologi e architetti pagano Iva per guadagni da fame, i giovani avvocati possono solo lavorare gratis.

“Generazione sfruttata” e’ un racconto di Riccardo Iacona, Raffaella Pusceddu, Alessandro Macina e Elena Stramentinoli.

(sì, ci sono anch’io, per raccontare un po’ di come si lavora in Rai e, più in generale, di come si lavora in un mondo che considera informazione e cultura poco più di un hobby per fighetti. Vita da free lance (ma senza tipi umani) e un po’ di pensieri su che razza di società stiamo costruendo per il nostro futuro. Mi fate sapere che cosa ne pensate?).