(Questo post sarà scritto omettendo nomi propri di persona, di animale e di città, di medicina, di malattia e di cosa pericolosa, in ossequio al decreto antidiffamazione del quale non ho capito il testo, le successive modifiche e le probabili aggiunte, ma che mi piace tanto tanto. E di cui non parlerei male per niente al mondo, ma proprio niente).
Qualche giorno fa mi chiama una collega di quelle brave. Mi fa: devo scrivere un articolo per un piccolo giornale online di pregio, e mi servirebbe uno specialista di una malattia rara che si cura con un farmaco costosissimo intorno al quale di recente è nato un grave scandalo. Mi sai consigliare un nome?
Dico: aspetta, lascia che chiami la mia consulente per fatti di questo tipo. La quale consulente è una parente stretta, di professione medico, che qui chiameremo col nome in codice mamma (quoziente di affidabilità 10/10).
Chiamo l’agente mamma e ripeto il quesito: Mi sai consigliare un nome?
Lei prende il telefono e cerca una collega fidata che si occupa precisamente di quella malattia. La trova. E apriti cielo.
Il grave scandalo, le spiega lei molto arrabbiata, è per metà un gran casino giornalistico che ha coinvolto alcuni colleghi fidati e di sicura onestà, sbattuti sulle prime pagine dei giornali per errore, per associazioni improprie, vittime di fraintendimenti di vario ordine e grado su come funzionino le cose in medicina quando si tratta di farmaci costosissimi e di malattie rare. Sarebbe potuto capitare anche a me, le dice, e se non mi è capitato è per un caso. Oppure è solo questione di tempo.
Vai, penso io: ecco un altro scienziato che parla di fraintendimenti e di distanze lessicali e di sarebbe potuto capitare anche a me.
L’agente mamma insiste, ragionevole: benissimo, allora se parli con la brava giornalista del piccolo giornale serissimo avrai modo di spiegare la vostra posizione e di provare a cambiare la lettura della stampa generalista che… Lei, invece, si arrabbia ancora di più e chiosa: non ci penso nemmeno, non voglio che il mio nome sia associato a questa vicenda. Comprensibile, dice l’agente mamma salutandola. Io storco la bocca, e penso: fatti loro.
Scena 2: interno giorno. Altro collega, altra situazione. Si parte lancia in resta alla costruzione di un pezzo di denuncia sullo scandalo di cui sopra. Mi guardo i piedi. L’agente mamma non starebbe zitta, io invece sì perché penso: in fondo il collega è bravo e c’è comunque molto da indagare ed è uno scandalo vero e forse sono solo fatti suoi e…
Un istante. Ci ripenso, allungo la mano, gli tocco la spalla e lo avverto: mi ha chiamato un giornale serissimo tempo fa, proprio per questa vicenda. Ho indagato (ometto il nome in codice del mio agente: non mi prenderebbe sul serio) e ho capito che ci sono finiti in mezzo tanti che forse non c’entrano molto. Attento alle querele. Lui mi dice: ok, grazie.
Scena 3: esterno giorno. Sono in giro con un’amica che insegna una cosa che non ha niente a che fare con la medicina, in un’università diversa da quella dei due protagonisti della prima scena. Le racconto il mio lavoro strano e il mio recente imbarazzo, la mia difficoltà di capire come comportarmi coi colleghi non-scientifici, quali siano fatti miei e quali fatti loro, quanto infilarmi nelle storie che stanno costruendo se mi chiedono un parere o se me le raccontano soltanto. E lei ha un sobbalzo: ha riconosciuto la vicenda. Qualche giorno prima, mi dice, ha ricevuto una mail da un collega della sua università, medico, che lei non conosce, ed era una mail di quelle collettive destinata ai colleghi dell’università. L’autore spiegava, con tanto di allegati, come fosse stato coinvolto impropriamente in un grosso scandalo finito sui giornali con grande vergogna. Lui non c’entra, spiega, ma come altri è finito sbattuto in prima pagina per i fraintendimenti che blablabla… A chi l’ha spedita, scusa? Per quanto ne so, ai colleghi universitari. Ah.
Ora. In due settimane ne ho sentite almeno due di cose così. E ho avuto un’unica, istintiva, reazione. Ma perché non vi difendete? Cacchio, scienziati: difendetevi.
A volte non è nemmeno vero che ci sia qualcuno che vuole accusarvi a tutti i costi. Semplicemente, a volte capita di fare errori. E allora difendetevi, no?
(Tra l’altro, dalla sentenza del processo dell’Aquila, noi giornalisti scientifici siamo visti dai colleghi non-scientifici come miopi difensori della scienza a tutti i costi, fautori di una categoria lontana e impenetrabile, che solo noi siamo rimasti a proteggere. Un po’ ci siamo rotti le scatole, a dirla tutta. Almeno dateci una mano).
Provate a pensare a quando siete voi il nostro pubblico. A quanto è difficile farsi un’opinione complessa in presenza di una sola campana. Perciò se la seconda campana è la vostra, e vi sembra che nessuno la ascolti, forse potreste almeno fare uno sforzo, buttare giù il rospo, e parlare coi giornalisti quando sono loro a cercarvi.
Se non per dovere di comunicazione, almeno per evitare di finire al centro di un tiro al piccione.