Archivio mensile:novembre 2010

E io contavo i denti ai francobolli (o L’universitario sul tetto)

Me ne accorgo adesso: sta arrivando l’inverno. Ero troppo indaffarata nei giorni scorsi per accorgermi dell’autunno. Strano. E non è stato nemmeno l’unico fenomeno periodico che mi sono persa. Ci sono anche le proteste degli universitari. Mi risveglio e li trovo sul tetto, davanti al Senato, per strada, sulla Torre di Pisa, al Colosseo, su una pista dell’aeroporto. La protesta comincia a farsi sentire, mi dicono. Il ministro dichiara che così si difendono i baroni, la polizia carica i manifestanti, i giornalisti ne parlano poco, e solo se molto stimolati: solo se si accorgono che i giornali stranieri hanno pubblicato una foto della Torre okkupata. Anch’io ne parlo poco, persino alla radio ne parlo poco: comunque meno di quanto avrebbe voluto la mia parte sentimentale, se si fosse accorta dell’autunno. O forse no. Forse ne parlo il giusto. Comunque è vero: non difendo la causa degli universitari nei miei ambienti di lavoro. Ma adesso, mentre tiro fuori berretti e sciarpe, mi fermo e ci penso.

Di qua: Non parliamo molto della protesta dei ricercatori intanto perché comincia a farsi sentire l’abbiamo cominciato a sentire un po’ troppo tempo fa. Quelli come me cercano le notizie e dopo un po’ questa roba ci suona come un eterno al lupo al lupo. In riunione di redazione la cosa viene liquidata così: che cosa possiamo dire di nuovo? Che cosa hanno da dirci di non banale? Chi risponde?
Di là:
Però a me i ricercatori piacciono e sono convinta che abbiano ragioni da vendere: io vengo da quel mondo e sarei stata tra loro se non fossi finita a fare la giornalista, il mio destino naturale era il tetto della Sapienza. E poi adesso loro sono lassù, sulla torre di Pisa e sul Colosseo: adesso sono riusciti a fare notizia. Per lo meno per chi si occupa di attualità, di cronaca, adesso sono notizia. Infatti sono finiti in prima pagina. E hanno messo in evidenza diversi bei problemi nel Governo.
Di qua
: Ah beh. Ci volevano loro, siccome. Per chi si occupa di scienza e di cultura in generale, passata la curiosità per lo striscione calato dalla Torre (che invece di cadere a piombo come i gravi di Galileo sta storto per simpatia) boh. Boh: le istanze dei ricercatori e degli universitari sono sempre quelle e sempre ugualmente mal espresse, persino un po’ contraddittorie. E sono relativamente poco interessanti per una buona parte di pubblico.
Sono parole utilizzate male, sono l’assurdo ossimoro composto dai concetti posto fisso dopo tanta precarietà e meritocrazia. Eh già…
Sono le proteste per le mancanze di fondi, in un paese che non ha più gli occhi per piangere.
Sono docenti colti, intellettuali veri, che individuano con precisione i termini del problema, ma poi riescono a dirlo a quattro gatti, a gente che probabilmente è già d’accordo con loro. E capipopolo grossolani, che non sanno spiegare che cosa vogliano e perché, salvo una parola: il futuro.
Sono comizi a base di luoghi comuni e frasi fatte: sono lo studente che va alla radio pubblica, chiede ridendo che gli sia dato del tu (il lei nun ze pò sentì…) e poi dice (testuali parole) andremo avanti perché il governo è allo sbando… la Torre è un bene comune come la conoscenza, l’università e la ricerca, il governo è alle strette, alla corda… il ddl gelmini non è che la punta dell’iceberg di un progetto di esclusione sociale che passa attraverso il mondo del lavoro così come il mondo della formazione pubblica. E poi: mettere le carte in tavola, ampio respiro, alternativa reale, strumentalizzati dalla sinistra piuttosto che (ovviamente usato in modo non avversativo)… e qui, per fortuna, il conduttore lo interrompe.
Ho l’orticaria.
Di là: Ma come fa a non essere interessante l’università, la ricerca, il futuro del nostro paese? Questi hanno ragione, quando parlano di futuro, di immagine di società, di lungimiranza e di cultura. Chi deve fare tutto questo, se non l’università pubblica? Se non quel posto dove anch’io ho conosciuto, imparato, respirato, dove sono diventata adulta?
Di qua: Sicura? Una fucina di menti, l’università che hai visto tu?
A volte mi sembrava di essere in un incubo di Tremonti, col ricercatore che passava il giorno a fare i magheggi tra consigli di amministrazione e di facoltà, il professore che si vedeva due giorni a settimana, i tecnici a timbrarsi il cartellino a vicenda, gli studenti a non far niente, a parlare di oroscopi, liste di nozze, calcio e, sommo sforzo intellettuale, tivù.
Di là: Non esageriamo. C’era anche tanta politica sana, tanta voglia di partecipazione. E adesso questi non difendono lo status quo dell’incubo di Tremonti: difendono un’idea di cultura che non è tanto diversa dalla tua. Anzi.
Di qua: Peccato che della mia vita e di quella di tanti altri loro non sappiano niente. Né abbiano intenzione di conoscerla. Quando dicono che questo paese si brucia il futuro, si rendono conto di cercare attenzione da una classe di giornalisti ancora più sofferente di loro? Di gente che a trenta, quarant’anni, lavora per due lire, con contratti capestro, corruttibili, loro malgrado, e indifesi. E che non possono nemmeno muoversi con facilità.
Conoscono la comunicazione? Conoscono il mercato del lavoro? Sanno che in Italia, oggi, la scuola va a rotoli, l’informazione va a rotoli, l’ambiente va a rotoli e tutto è allo sbando? Come possono credere che altri precari, altri nuovi poveri, li prendano sul serio e pensino che il loro futuro sia più urgente del proprio presente?
Di là: Siamo l’unico paese al mondo che… Siamo l’unico paese in Europa in cui… Siamo destinati a restare al palo, fanalini di coda, ultimi della classe.
Di qua: Basta con le frasi fatte, anche tu. Lo vedi che diventate noiosi? Non lo capisci che qui ci vuole una soluzione di sistema? Che passi dalla scuola, dall’istruzione, dall’università, dalla salute, dalla gestione delle cose pubbliche, dai trasporti, dalle pensioni, dall’accoglienza ai migranti…? Che ci vuole un’idea di paese, oggi, non di futuro per te e per i tuoi amici del tetto?

E per esempio. Il famoso ricercatore italiano ad Harvard, qualche settimana fa, alla classica domanda perché non torna in Italia? mi ha risposto che la ricerca non ha nazionalità e che i suoi frutti sono per l’intera umanità, non solo per il paese che la finanzia. E allora non potremmo pensare che in un mondo globalizzato c’è un posto dove ci si educa molto bene fino ai 25 anni (magari con qualche lacuna sull’uso degli avverbi, d’accordo) e che poi non possiede una ricerca tecnico scientifica superiore, mentre lì accanto si fa ottima ricerca ma scarpe orrende e formaggio più che discutibile?
Del resto, i liceali di Lucca poi vanno all’università a Pisa.
Cioè: se allargo il mio sguardo finisco per sentirmi un po’ più sfigata nell’immediato, coi colleghi europei (che ho conosciuto, ahimè…) in situazioni lavorative idilliache in confronto alla mia. Ma forse un po’ più fortunata nel futuro, con una collettività che può espandersi e può permetterci di spostarci, di conoscerci e di distribuirci sul territorio del nostro continente a seconda delle nostre inclinazioni e del nostro contributo alla comunità.
Perché qui guardiamo sempre più in piccolo? Perché non proviamo a pensare che un giorno, tutto questo, non sarà né giusto né sbagliato: sarà il nostro mondo e ci staremo dentro qualunque sia il nostro contratto di lavoro o qualunque sia stata la prima lingua che abbiamo imparato da bambini?
Sfrenato ottimismo, il mio.
O insensato nichilismo.
Ridatemi l’estate e ve lo spiegherò meglio.

Pecunia a volte olet. Però serve sempre

Non abbiamo una lira. Niente più trasferte, niente più speciali. Si tira la cinghia e si stringono i denti: alla radio si deve cominciare a lavorare così. Non che qui abbiamo mai navigato nell’oro: siamo radiofonia, terzo canale, figuriamoci. Una cuffia, un microfono e vai. Ma adesso la situazione è seria e dobbiamo sacrificarci. Se ci saranno assenze non ci saranno sostituzioni. Nessun nuovo contratto. E compensi diminuiti per tutti.

D’accordo, capo. Ma se in questa situazione di estrema difficoltà arrivasse un benefattore che, in cambio di un bollino in calce alle nostre pagine web, ci proponesse il suo disinteressato sostegno economico? Difficile fare i duri e puri, e anche poco furbo. Eh già, poco furbo.
No, perché se succede in situazioni di agiatezza (vabbè, siamo sempre il terzo canale della radiofonia, non immaginiamoci sfarzi e lussi tipo un computer funzionante a testa o una lavagna nuova), insomma: in un periodo in cui i soldi ci sono, accettare o meno il presente del sopramenzionato benefattore è una scelta. Poi, semmai, si tratterà di decidere che cosa farne e di come dirlo agli ascoltatori. Ma intanto si è liberi di dire sì o di dire no.

Se invece il benefattore arrivasse oggi… ci dà appuntamento alle tre, è ben vestito e parla bene, è anche simpatico, ci assicura che non metterà bocca sulla scelta di temi e ospiti… e noi non abbiamo una lira. Ma come faremo a dirgli di no? Anzi: come faremmo, se volessimo. Perché voler dire di sì o voler dire di no è ugualmente legittimo, solo che poter dire di no è quasi impossibile. Ci si fa anche la figura dei rigidi, degli integerrimi a tutti i costi, di quelli incapaci di scendere a compromessi. E questo non è nemmeno il paese e il momento politico per fare gli ultimi dei giapponesi, rintanati nella giungla di un’ideologia da anime candide, quando là fuori la guerra tra pubblico e privato è finita da un pezzo. Insomma: che cosa faremo?

Un gedankenexperiment, ma mica tanto. Cominciamo a pensarci, va’.

E allora non parliamo più (o Lo sciopero del chiacchierone)

Cercherò di essere originale. Non parlerò della storia di Paola Caruso, del suo sciopero della fame da precaria dell’informazione e della polemica che rimbalza in rete, tra chi la chiama eroina e chi dice che sta solo difendendo il suo meschino orticello, per di più facendo un gran casino. Però un pensierino vorrei comporlo, breve breve: che abbia torto o ragione a chiedere il posto fisso dopo sette anni di precariato al Corsera, che sia comunque una privilegiata (ma che gioco al ribasso, quello di chi dice che ci sono precariati peggiori…) o che rappresenti tutti noi, mi fa sentire davvero pessimista. Qualcuno comincerà prima o poi a denunciare come funziona l’informazione in Italia? E soprattutto: potrà farlo senza che siano i suoi colleghi a chiedergli di stare zitto? Perché passi il precariato, che affligge solo noi e le nostre famiglie. Ma siamo tutti cittadini e l’informazione, come la sanità e la scuola, per dire, è un nostro diritto. Sarebbe bello sapere davvero chi è che sta al desk dove si compone l’articolo che abbiamo appena letto, e perché.

E poi. A me le proteste violente non piacciono e non stimo chi gioca con la propria salute, soprattutto se è per far sentire qualcun’altro un assassino: mi viene in mente Asterix e quella storia in cui c’è il bambino bizzoso che minaccia gli adulti di smettere di respirare. Quando diventa viola in faccia gli adulti sono costretti a dargli ragione e a fargli fare quel che vuole. Però non possiamo nemmeno continuare a pensare che se uno protesta è uno stronzo che non ha capito che stiamo peggio di lui. Non l’abbiamo capito che il gioco è proprio quello? Di farci sentire tutti rivali, l’uno dell’altro, tutti così diffidenti e convinti che homo homini lupus, mors tua vita mea e così via? Non sono d’accordo con la protesta violenta di Paola. Ma la protesta è un suo diritto e non sarò io, pur stando probabilmente peggio di lei, a minimizzare il suo problema.

E allora ecco che anche noi ci proviamo. Siamo precari di Radio3: tutti parenti tutti differenti, direbbero i miei amici genetisti. Cominciamo a conoscerci e poi studiamo un po’ la situazione. Ci levano dieci euro a ogni contratto. Qualcuno di noi prende tipo il 30% in meno, in termini orari, della mia donna delle pulizie. E abbiamo letto la circolare di Masi che dice che si dovrà ancora tagliare sui collaboratori esterni: sul numero e sul compenso. Come se i collaboratori esterni fossero solo Vespa e Angela, e non la gente che viene tutti i giorni qui a fare la radio: dipendenti travestiti da liberi professionisti, che firmano contratti in cui si dice che per malattia, infortunio o gravidanza il rapporto di lavoro finirà. Gente che all’azienda non costa nulla ma che tira avanti la carretta in silenzio. Se si normalizzassero i compensi per gli ascolti che facciamo, stasera vi inviteremmo tutti al ristorante.

Fino a ora siamo stati zitti e ci siamo incrociati nei corridoi per dirci due mezze parole ogni tanto. Adesso la situazione sta diventando insostenibile e c’è la paura di affondare davvero. Non è soltanto una pessima notizia per noi: dovrebbe esserlo anche per chi ci ascolta, visto che molti programmi qui in radio vengono fatti solo dai collaboratori esterni. Che facciamo: smettiamo di accettare queste condizioni di lavoro? Forse sì, forse dovremmo. Ma prima parliamone, anche perché non siamo sicuri di fidarci l’uno dell’altro. E magari denunciamolo: al mese, ci danno intorno al migliaio di euro, forse qualche centinaio in più (i soliti privilegiati…) e solo per nove mesi all’anno. Intanto tranquilli: non faremo uno sciopero della fame. Convocheremo piuttosto un’assemblea di quelle portatevi-il-panino-perché-tiriamo-avanti-fino-alle-tre, o al più una riunione a ora aperitivo. Però ci proveremo. Con pochissime speranze ma con un pelino di orgoglio in più. E imparerete che il nostro sciopero è rumoroso come il silenzio.

(Ah, qualche giorno fa mi hanno telefonato: una delle puntate di Radio3 scienza che ho fatto il mese scorso ha vinto un premio per l’informazione medico scientifica. Siamo anche bravi, accidenti. Bravi certificati. E ci facciamo pagare in pacche sulla spalla).

Noi, ragazzi di oggi: paure, diffidenze, cliché

Sono duecentocinquanta, hanno tra i sedici e i diciotto anni e sono sdraiati sui banchi di un’aula magna, con le loro felpe un po’ troppo simili alla mia, i loro cappellini, le loro sneakers. Stiamo parlando di creatività e non vola una mosca. Nessun intervento, ragazzi? Faccio io un po’ delusa. Domande? Niente. Questi sono proprio delle zucche vuote. Il dibattito va avanti a stento, finché non succede qualcosa che non so, e si sentono attaccati.

Finalmente, a più riprese nel corso del dibattito, in tanti tra loro cominciano a prendere la parola. Sembra che si vogliano discolpare: non siamo creativi ma non è colpa nostra. La prima è una tipa truccatissima, con i riccioli biondi chiaramente tinti, a diciott’anni. Dice che il problema è che loro, i ragazzi di oggi, sono bombardati dalle immagini, dalle cose che arrivano dalla tivù, che sono cattivi modelli, senza sostanza e senza pensiero: lei è pessimista perché tutti sono cresciuti così e non hanno fantasia né spirito critico. Sembra che l’abbia letto due minuti fa e che lo stia ripetendo diligentemente. Le rispondono. La fazione degli ottimisti è eterogenea: c’è una ragazza (straniera) con la coda di cavallo e un maglioncino discreto, che batte tutti dicendo che, insomma, ci vuole un po’ di iniziativa e anche, perché no, di generosità. Che lei ha vinto un premio per un concorso su un’idea scientifica, che con quel premio è andata a Tunisi e poi in California, a spiegare il suo progetto. E il suo progetto è una cosa di grande semplicità e intelligenza, come la creazione di emulsioni a base di bicarbonato per lenire il prurito da punture di insetti. In dieci secondi ci spiega la biochimica che c’è dietro. Nessuno ha storie simili da raccontare, ragazzi? Silenzio. Alza la mano uno coi capelli ritti e una maglia da skaters ma fa un passo indietro e risponde alla velina: dice che lui non crede alla storia della tivù cattiva maestra perché è anche un po’ responsabilità loro, dei ragazzi, se si fanno abbindolare, se a tutti i costi vogliono copiare quello che succede in tivù. La ragazza straniera tace e i due, la velina e lo skaters, inaugurano un dibattito in stile Amici di Maria de Filippi (con me nella parte della de Filippi) che dopo due minuti decido di chiudere d’autorità.

Secondo imputato, la scuola. Qui gli adulti sanno che cosa rispondere e partecipano anche loro. Ma non è un vero dibattito, perché siamo tutti d’accordo. La nostra scuola non fa molto per renderci creativi. Anzi: il più delle volte ammazza la creatività, perché ci vuole tutti disciplinati e tutti d’accordo su un orario scandito in materie separate tra loro (e l’atomo di chi è? Mi chiedevo quando ero più giovane: è roba da chimici o da fisici? E la molecola? Non è che è dei biologi?! Erano crisi identitarie anche quelle, e ci ero già abituata). E poi mancano i soldi. Michele, compagno di classe della ragazza straniera, sintetizza tutto benissimo: ci dite che senza soldi la creatività non diventa innovazione, ma noi, nella nostra scuola, senza soldi non diventiamo nemmeno creativi, perché quest’anno ci hanno tolto anche i tecnici di laboratorio.

Io me lo ricordo il tecnico di laboratorio di fisica del mio liceo. Si chiamava Strambi. Per me rimarrà famoso soprattutto per una frase: Deh… Sarà anche stato Galileo, ma su ‘sta roba e un centrava ‘na vacca ‘n un corridoio… Chiaro che non mi ricordo che cosa fosse, l’errore marchiano di Galileo. Ma se non erano creatività e trasgressione queste… un pisano che ti fa immaginare Galileo alle prese con una vacca in un corridoio. Chissà se è vero che quando eravamo noi i ragazzi di oggi giravano più idee, più speranze, meno veline e più Micheli. E chissà se è vero che per questo ce la caveremo (e ce la stiamo cavando) tanto meglio di loro.

“Mamma, di che cosa sa una canna?”: prima lezione di illegalità

Come abbiamo fatto a non accorgercene? Stasera c’è Guccini a Roma! I biglietti sono finiti, ma noi andiamo lo stesso. Siamo in tre, di cui una minorenne (molto minorenne, si vede proprio che è minorenne). Parcheggiamo e ci infiliamo nel piazzale del Palalottomatica in cerca di un biglietto. Luci basse, gente smarrita, spazzatura per strada e bagarini a non finire: gli passi accanto e quelli bisbigliano biglietti, biglietti, compro e vendo biglietti… “sembrano quelli che vendono il fumo a San Lorenzo”, faccio io. E la minorenne: “chi lo vende, il fumo? Dove lo vendono? Come si trova?”, inaugurando il suo personale tormentone della serata: “mamma, tu ti sei mai fatta una canna? E tu silvia, ti sei mai fatta una canna? Ed è più buono l’hashish o l’erba? E quanto costa una canna? E come si fa, a farsi una canna?…”. Interrogata, a fine serata, si scoprirà che non si è nemmeno accorta che in Eskimo si racconta di una canna: quell’erba ci cresceva tutt’attooooorno, per noi crescevan solo i nostri guai. “Ma io ho sonno”, replicherà sbadigliando.

Giriamo e contrattiamo con un po’ di bagarini. Poi smettiamo di divertirci. Settanta euro per un biglietto da trenta sono troppi: “ma mamma… ma sennò come entriamo?!”. Sono aggressivi, sono cialtroni: “a signò, ooo faccio per la bbbambina, sennò je lo dovevo fà pagà deppiù”. Ci affidiamo a un ragazzo di colore, gentile, che ci vede smarrite e va alla ricerca dei biglietti per noi, ovviamente non gratis. Alla fine ce li trova: è sempre il solito bagarino, ma adesso ci chiede sessanta. Contrattiamo, sfinite, e facciamo cinquantacinque. Cinquantacinque, dai. Solo che mentre andiamo via coi nostri biglietti ci accorgiamo che quello che ha scontato a noi lo ha tolto al nostro mediatore. Il ragazzo di colore lo insegue per avere la sua percentuale, ma lui si è già intascato tutto e lo scuote via con una spallata. Vergogna. Testa bassa, tiriamo dritto, facendo lo slalom tra cartacce e lattine vuote.

Il Palalottomatica sembra un’enorme meringa grigia, mostruosa, che ci ha inghiottito insieme ad altre migliaia di persone. I nostri posti sono un po’ laterali e alti: il palco lo vediamo di striscio. La minorenne comincia a mostrare insofferenza e non si leva la giacca a vento nonostante i trentacinque gradi di temperatura della meringa. “Ma quando comincia?”. Poi finalmente arrivano i musicisti e arriva anche lui, imponente, un po’ goffo, con quel gran pancione, la camicia rossa sbiadita e le gambe magre. Che personaggio! Ci alziamo, applaudiamo, salutiamo, qualcuno urla. La meringa vibra per l’entusiasmo del pubblico. La minorenne sembra imbarazzata. Noi sembriamo due minorenni.

A me Guccini piace un sacco. Mi piace la sua voce, mi piacciono le sue canzoni, mi piace quel suo aspetto di settantenne vigoroso e intelligente. Ma quel monologo di apertura no. “Perché non canta?”, si chiedeva un ragazzotto accanto a me, lì con un padre affettuoso e dalla commozione facile. “Perché non canta?” e intanto stringeva le mani sulle spalle del genitore, un po’ infastidito, un po’ smarrito. Perché non canta, e perché non rinuncia, nemmeno lui, a esordire con Un buon bunga bunga a tutti!, proseguendo su che cosa sia il bunga bunga e sul fatto che lui non l’ha mai fatto, accidenti, che coglione? Sarà che non sopporto più le battute sul bunga bunga, che non capisco che cosa ci sia da ridere, ancora, sulla storia di una ragazzina vittima del mondo dei grandi. Sarà che non le sopporto soprattutto se a far queste battute è un maschio anziano, come il primo carnefice di quella ragazzina. Sarà che poi il mi’ guccio continua col parlare di politica, ma confonde le parole: anzi, ne usa una per un’altra che vuol dire l’esatto contrario. Ma come? Il mi’ guccio era raffinato, colto, ironico, non così sciatto e piacione. Sarà la meringa, sarà. Ma perché non canta?

Poi, finalmente, canta. Ed è come ce lo aspettavamo tutti, minorenne esclusa. La prima, come sempre, è Canzone per un’amica, e ti trovi a pensare, cavolo, che grande amicizia, se dopo quarant’anni ancora le rende omaggio aprendo ancora tutti i concerti con lei. E il resto è bello, divertente, emozionante. Due file sotto di noi, però, ci sono due coglioni. Due coglioni veri, con la faccia da coglione, esagitati, che dopo ogni canzone gridano Berluscònipezzodimèrda con voce da ultrà e ogni tanto si accendono una sigaretta. Il padre del ragazzotto, a ogni sigaretta, si sporge su di loro e gliela fa spengere, gandhiano: è a lui, pensi, che stasera è dedicata Cyrano, quando dice coi furbi e i prepotenti da sempre mi balocco, e al fin della licenza io non perdono e toooccoooo!

Non è proprio come me l’aspettavo, l’uscita dal concerto. Abbiamo cantato la locomotiva insieme, ma poi nessuno sorride, siamo ognun per sé e ci spintoniamo verso i cancelli. La minorenne ci segue strascicando i piedi: “Tu silvia che droghe usi?”, “Solo l’alcol: lo trovi dappertutto, costa poco, fa malissimo. Che vuoi di più?”. Sua madre sorride e si accende una sigaretta. Attraversiamo la strada a cinquanta metri dalle strisce, montiamo su un pratino spartitraffico, calpestiamo l’erba umida. “Ma anche l’Lsd è una droga?” “Certo che è una droga, solo che è passata di moda”. La minorenne zompetta, noi canticchiamo ancora. Poi arriviamo alla macchina e troviamo, lì accanto, una macchina coi vetri sfondati e due in silenzio, che la guardano sgomenti. Anche la macchina davanti ha il lunotto posteriore spaccato, quella dietro, quella più sotto, la nostra. Tutte: hanno tutte i vetri spaccati. Per terra, mucchi di frammenti di vetro luccicante. “Non toccare niente, porcaputtanaporca, non toccare niente!”. “Chi è stato, mamma?”. “Di sicuro i fascisti!”.

No, niente fascisti. Si tratta dell’ultima tappa del nostro viaggio nell’illegalità. Venti macchine, almeno, coi vetri sfondati e qualcuna alleggerita di una borsa, una valigia. Arrivano i carabinieri e ci spiegano di aver già arrestato la settimana scorsa gli autori di quella bravata, solo che dopo venti ore sono usciti di questura, e hanno ricominciato con le mazze sui vetri. Ripuliamo il sedile posteriore e torniamo a casa. “Tu siediti davanti”. “Perché?”. “Perché così se ti viene sonno puoi dormire senza che noi ci preoccupiamo dei vetri rotti sul sedile”. Vado dietro io e dopo poco mi addormento come un sasso, col sedere su un giornale che scricchiola sulle schegge di vetro. Ma prima, parliamone: “Mai più, mai più”. “Perché mamma? Il concerto non ti è piaciuto?”. “Sì ma…”. “Vedi, minorenne, stasera la tua mamma e io ci siamo molto infastidite perché noi non siamo così, non lo siamo mai state, eppure stasera ci siamo trovate dentro fino al collo a situazioni illegali, immorali, asociali, irrispettose della collettività e del nostro vivere sociale. E alla fine l’abbiamo presa in tasca almeno due volte, pagando i biglietti cinquantacinque euro e tornando a casa con una macchina col vetro rotto. Per non parlare del pattume, del ragazzo spintonato per aver chiesto i suoi dieci euro al bagarino, dei due coglioni che fumavano nella meringa. E anche del bunga bunga, via”. “Che cos’è il bunga bunga?”. “Ehm… cioè, è una specie di ballo, misteriosissimo, che… Berlusconi… le ragazzine… ma più grandi di te, eh… ai festini…”. “E c’entra anche la DROGA?! Eh?!”. Roma zona eur, una di notte: le macchine incolonnate vanno verso il centro. Il cielo è pulito, ma qui non si cammina e l’aria odora di gas di scarico. Ancora mezz’ora e sono a letto.

La peggio senilità (viaggio tra palazzo chigi e palazzo grazioli)

Stavolta no. Stavolta è troppo. Stavolta esco di redazione, vinco il sonno e l’eterno fare il punto del lavoro, e corro a Palazzo Chigi. Non ho capito bene chi abbia convocato il sit-in di protesta per le frasi di Berlusconi (“meglio essere appassionati di belle ragazze che gay“), ma stavolta mi hanno veramente steso. Non è la distrazione di massa, come scrive qualcuno dei miei amici di facebook: è il superamento del limite. Riesce a offendermi una, due, tre… riesce a offendermi venti volte almeno. E a farmi vergognare come non mai. Forse è vero che con questo smettiamo di pensare, almeno per un po’, alla situazione economica disastrosa di questo paese, alla scuola, all’università, alla cultura, alla ricerca, alla sanità, al lavoro, all’ambiente, alla legalità e, cavolo, all’informazione. Ma stavolta va bene lo stesso. E’ una sberla, un ceffone salutare, un gavettone freddo: è un uomo anziano, assurto per l’ignoranza dei più al soglio di Palazzo Chigi, capace di fare gomitino di fronte a un gruppo di amanti della motocicletta per giustificare il suo spasmodico bisogno di sesso, di un sesso che ha la forma di una gretta manifestazione di potere ed esiste per un continuo abuso di potere.
Come se fosse una roba archiviabile con un sorriso, la storia di Ruby e tutto il puttanaio a seguire. La telefonata in questura e il bungabunga per cui i giornali stranieri ci pigliano allegramente per il culo. Passione per le donne, la chiama. E chi non la capisce è un finocchio.

Corro a Palazzo Chigi e ci trovo altre sessanta – settanta persone con bandiere e cartelloni. Cioè: non sono esattamente davanti a Palazzo Chigi, ma sono sul marciapiede davanti alla galleria Colonna, e si scansano tutte le volte che passa un autobus. Sono lì perché la polizia ha chiuso l’accesso tra Palazzo Chigi e Montecitorio, per quanto riesca a vedere dal mio marciapiede affollato. Strano, nel mio paese, vedere un pezzo di città barricato perché è lì che si esercita la democrazia. Mi viene in mente quando ero bambina e i miei genitori mi portavano al seggio a vedere le elezioni: quanto sono belle, giuste e buone, le elezioni, e poi libertà è partecipazione. Invece qui siamo costretti sul marciapiede dello shopping e un agente della Digos mi schiaccia verso il margine della strada per far passare un macchinone.

Al megafono si alternano interventi di politici ed esponenti di associazioni lgbt. A dire il vero, non mi pare di sentire grandi analisi né frasi illuminanti, ma che ci vuoi fare: stiamo parlando di una mobilitazione organizzata all’impronta. La risposta intelligente la sentirò da Vendola su internet, una volta che sarò tornata a casa (geniale quel rassicurante nessuno mette in dubbio il suo orientamento sessuale, presidente). Finché non arriva uno strano gruppo di ragazzotti vestiti di nero, coperti di piercing e tatuaggi (uno lo leggo bene: dice skin) che, con un altro megafono, propone di sfondare le transenne e di andare sotto Palazzo Chigi per davvero. E poi grida slogan banali (dimissioni, vergogna, siamo gay, antigua…) e si butta su un gruppetto di agenti con fare provocatorio (perché non possiamo andarci? siamo liberi cittadini…). Parte della folla li osserva divertita. Il gruppetto di liderini al megafono prova ad andare avanti. Ma, metafora disperante della nostra opposizione, politica e civile, a questo governo, quel megafono è meno potente dell’altro, del megafono nero dei tipi col piercing. Sicché si sentono solo loro, i piercing, almeno nel mio pezzo di marciapiede. E quando gli slogan si fanno insistenti, sorpresa, uno per uno i manifestanti, che prima ascoltavano diligentemente gli interventi dei liderini, li seguono divertiti: dimissioni, vergogna, siamo gay, antigua… C’è anche un tipo con un cartello che dice: meglio gay che pedofilo, firmato un marito e padre di famiglia, un po’ troppo ansioso di essere fotografato, con l’aria da invasato e forse non è solo un simpatizzante. La situazione è difficile da capire. Chissà in quanti, di quei sessanta – settanta, erano lì per una genuina indignazione e quanti per fare casino o per farsi vedere. Per me il raduno finisce quando anche i liderini al megafono, forse rassegnati, forse inconsapevoli del ridicolo cui si stanno coprendo, si danno allo slogan semplice, anche loro, scavalcando da destra i provocatori. E quando sento il padre di famiglia invasato andare dal tipo coi piercing e scambiare con lui le seguenti battute: sei il mio mito! Mò andiamo a Palazzo Grazioli per l’aftershow.

Ennò. Ci vado pure io all’aftershow. Siamo in due e corriamo a Palazzo Grazioli per le stradine dietro al Pantheon. Arriviamo. Fotografi a parte, c’è un sacco di gente appoggiata alle transenne che aspetta. Ma cosa? Cominciamo a parlare a voce alta: di finire tra i fan di B. non ci va. Nemmeno per curiosità antropologica, oggi no. Siamo a disagio. E allora chiedo. Signora mi scusi… ma lei che ci fa qui? Risposta: E lei che ci fa? Beh, pertinente. Spiego di essere lì per curiosità, perché, avendo sentito quel che ha detto oggi volevo seguire le manifestazione di contestazione. E che ha detto oggi? Sa, io è un po’ che non riesco a informarmi… Racconto, faccio la faccia contrita, spiego della frase sui gay e sulle belle donne, di Ruby e così via. Sono due, pensavo che fossero insieme invece mi sbaglio. Comunque appaiono entrambe sinceramente disgustate. Non lo sapevano. Mi chiedono, sospettose: E lei come lo sa? La frase vincente è L’ho visto alla tivvù. Una delle due se ne va (non ho più voglia di stare qui. Mi fa schifo). L’altra rimane, ma è onestamente perplessa. Davanti a me, una ragazzina che chiama la mamma per dire di aver visto passare Bossi e una coppia anziana dall’accento meridionale che non vuole lasciare il posto in prima fila.

Niente aftershow. Vado a casa. Provo a mettermi nelle orecchie una roba un po’ ottimista, un po’ combattiva. Trovo nell’Ipod Dio è morto. Ma c’è quella frase che mi fa incazzare, quella in cui un settantenne grida, vigoroso: la mia generazione è preparata a un mondo nuovo, a una speranza appena nata. E penso alla tipa che è un po’ che non riesce a informarsi ma comunque va a salutare il presidente a Palazzo Grazioli, da sola, alle sette e mezza di un martedi sera. E agli altri, aggrappati alle transenne di Palazzo Grazioli come ai cancelli della casa di Avetrana, lì per fotografare uno importante. Ai liderini e ai due scemi dell’aftershow che ne approfittano per fare un po’ di casino. Forse quel che è successo oggi non è troppo solo per me: è troppo anche per gli altri della mia generazione, quella che non è preparata a un bel nulla, non legge nemmeno i giornali, copia gli slogan gridando da un marciapiede. Forse basta solo che qualcuno glielo racconti onestamente. Già, ma chi lo deve fare? Non ci toccherà mica passare da Palazzo Grazioli tutte le sere?!

(Intanto dedico il video che segue alla ragazza che non ha tempo per informarsi per ricordare a lei e a tutti gli altri che oggi è il trentacinquesimo anniversario dell’omicidio di Pierpaolo Pasolini)