Me ne accorgo adesso: sta arrivando l’inverno. Ero troppo indaffarata nei giorni scorsi per accorgermi dell’autunno. Strano. E non è stato nemmeno l’unico fenomeno periodico che mi sono persa. Ci sono anche le proteste degli universitari. Mi risveglio e li trovo sul tetto, davanti al Senato, per strada, sulla Torre di Pisa, al Colosseo, su una pista dell’aeroporto. La protesta comincia a farsi sentire, mi dicono. Il ministro dichiara che così si difendono i baroni, la polizia carica i manifestanti, i giornalisti ne parlano poco, e solo se molto stimolati: solo se si accorgono che i giornali stranieri hanno pubblicato una foto della Torre okkupata. Anch’io ne parlo poco, persino alla radio ne parlo poco: comunque meno di quanto avrebbe voluto la mia parte sentimentale, se si fosse accorta dell’autunno. O forse no. Forse ne parlo il giusto. Comunque è vero: non difendo la causa degli universitari nei miei ambienti di lavoro. Ma adesso, mentre tiro fuori berretti e sciarpe, mi fermo e ci penso.
Di qua: Non parliamo molto della protesta dei ricercatori intanto perché comincia a farsi sentire l’abbiamo cominciato a sentire un po’ troppo tempo fa. Quelli come me cercano le notizie e dopo un po’ questa roba ci suona come un eterno al lupo al lupo. In riunione di redazione la cosa viene liquidata così: che cosa possiamo dire di nuovo? Che cosa hanno da dirci di non banale? Chi risponde?
Di là: Però a me i ricercatori piacciono e sono convinta che abbiano ragioni da vendere: io vengo da quel mondo e sarei stata tra loro se non fossi finita a fare la giornalista, il mio destino naturale era il tetto della Sapienza. E poi adesso loro sono lassù, sulla torre di Pisa e sul Colosseo: adesso sono riusciti a fare notizia. Per lo meno per chi si occupa di attualità, di cronaca, adesso sono notizia. Infatti sono finiti in prima pagina. E hanno messo in evidenza diversi bei problemi nel Governo.
Di qua: Ah beh. Ci volevano loro, siccome. Per chi si occupa di scienza e di cultura in generale, passata la curiosità per lo striscione calato dalla Torre (che invece di cadere a piombo come i gravi di Galileo sta storto per simpatia) boh. Boh: le istanze dei ricercatori e degli universitari sono sempre quelle e sempre ugualmente mal espresse, persino un po’ contraddittorie. E sono relativamente poco interessanti per una buona parte di pubblico.
Sono parole utilizzate male, sono l’assurdo ossimoro composto dai concetti posto fisso dopo tanta precarietà e meritocrazia. Eh già…
Sono le proteste per le mancanze di fondi, in un paese che non ha più gli occhi per piangere.
Sono docenti colti, intellettuali veri, che individuano con precisione i termini del problema, ma poi riescono a dirlo a quattro gatti, a gente che probabilmente è già d’accordo con loro. E capipopolo grossolani, che non sanno spiegare che cosa vogliano e perché, salvo una parola: il futuro.
Sono comizi a base di luoghi comuni e frasi fatte: sono lo studente che va alla radio pubblica, chiede ridendo che gli sia dato del tu (il lei nun ze pò sentì…) e poi dice (testuali parole) andremo avanti perché il governo è allo sbando… la Torre è un bene comune come la conoscenza, l’università e la ricerca, il governo è alle strette, alla corda… il ddl gelmini non è che la punta dell’iceberg di un progetto di esclusione sociale che passa attraverso il mondo del lavoro così come il mondo della formazione pubblica. E poi: mettere le carte in tavola, ampio respiro, alternativa reale, strumentalizzati dalla sinistra piuttosto che (ovviamente usato in modo non avversativo)… e qui, per fortuna, il conduttore lo interrompe.
Ho l’orticaria.
Di là: Ma come fa a non essere interessante l’università, la ricerca, il futuro del nostro paese? Questi hanno ragione, quando parlano di futuro, di immagine di società, di lungimiranza e di cultura. Chi deve fare tutto questo, se non l’università pubblica? Se non quel posto dove anch’io ho conosciuto, imparato, respirato, dove sono diventata adulta?
Di qua: Sicura? Una fucina di menti, l’università che hai visto tu?
A volte mi sembrava di essere in un incubo di Tremonti, col ricercatore che passava il giorno a fare i magheggi tra consigli di amministrazione e di facoltà, il professore che si vedeva due giorni a settimana, i tecnici a timbrarsi il cartellino a vicenda, gli studenti a non far niente, a parlare di oroscopi, liste di nozze, calcio e, sommo sforzo intellettuale, tivù.
Di là: Non esageriamo. C’era anche tanta politica sana, tanta voglia di partecipazione. E adesso questi non difendono lo status quo dell’incubo di Tremonti: difendono un’idea di cultura che non è tanto diversa dalla tua. Anzi.
Di qua: Peccato che della mia vita e di quella di tanti altri loro non sappiano niente. Né abbiano intenzione di conoscerla. Quando dicono che questo paese si brucia il futuro, si rendono conto di cercare attenzione da una classe di giornalisti ancora più sofferente di loro? Di gente che a trenta, quarant’anni, lavora per due lire, con contratti capestro, corruttibili, loro malgrado, e indifesi. E che non possono nemmeno muoversi con facilità.
Conoscono la comunicazione? Conoscono il mercato del lavoro? Sanno che in Italia, oggi, la scuola va a rotoli, l’informazione va a rotoli, l’ambiente va a rotoli e tutto è allo sbando? Come possono credere che altri precari, altri nuovi poveri, li prendano sul serio e pensino che il loro futuro sia più urgente del proprio presente?
Di là: Siamo l’unico paese al mondo che… Siamo l’unico paese in Europa in cui… Siamo destinati a restare al palo, fanalini di coda, ultimi della classe.
Di qua: Basta con le frasi fatte, anche tu. Lo vedi che diventate noiosi? Non lo capisci che qui ci vuole una soluzione di sistema? Che passi dalla scuola, dall’istruzione, dall’università, dalla salute, dalla gestione delle cose pubbliche, dai trasporti, dalle pensioni, dall’accoglienza ai migranti…? Che ci vuole un’idea di paese, oggi, non di futuro per te e per i tuoi amici del tetto?
E per esempio. Il famoso ricercatore italiano ad Harvard, qualche settimana fa, alla classica domanda perché non torna in Italia? mi ha risposto che la ricerca non ha nazionalità e che i suoi frutti sono per l’intera umanità, non solo per il paese che la finanzia. E allora non potremmo pensare che in un mondo globalizzato c’è un posto dove ci si educa molto bene fino ai 25 anni (magari con qualche lacuna sull’uso degli avverbi, d’accordo) e che poi non possiede una ricerca tecnico scientifica superiore, mentre lì accanto si fa ottima ricerca ma scarpe orrende e formaggio più che discutibile?
Del resto, i liceali di Lucca poi vanno all’università a Pisa.
Cioè: se allargo il mio sguardo finisco per sentirmi un po’ più sfigata nell’immediato, coi colleghi europei (che ho conosciuto, ahimè…) in situazioni lavorative idilliache in confronto alla mia. Ma forse un po’ più fortunata nel futuro, con una collettività che può espandersi e può permetterci di spostarci, di conoscerci e di distribuirci sul territorio del nostro continente a seconda delle nostre inclinazioni e del nostro contributo alla comunità.
Perché qui guardiamo sempre più in piccolo? Perché non proviamo a pensare che un giorno, tutto questo, non sarà né giusto né sbagliato: sarà il nostro mondo e ci staremo dentro qualunque sia il nostro contratto di lavoro o qualunque sia stata la prima lingua che abbiamo imparato da bambini?
Sfrenato ottimismo, il mio.
O insensato nichilismo.
Ridatemi l’estate e ve lo spiegherò meglio.