Archivio mensile:febbraio 2012

Ancora sui contratti atipici in Rai: “perché non hai paura?”.

“Ciao, ti sto chiamando per la clausola gravidanza del contratto delle collaboratrici Rai. Mi sembra che il tuo sia stato il primo blog a parlarne, l’estate scorsa”. “Guarda, non lo sapevo nemmeno. Ne ho scritto, quel giorno lì, dopo un’assemblea in cui ne avevamo parlato…”. “Perché, voi sapevate che c’era?”.”Certo, è il nostro contratto! Anche se in effetti ne abbiamo parlato per la prima volta un po’ meno di un anno fa, tra l’altro proprio in occasione di un incontro con quei sindacati che oggi cascano dalle nuvole e…”. “Ma perché finora non lo avete mai raccontato anche pubblicamente?”. “Beh, io ne ho scritto sul mio blog quasi un anno fa, appunto”. “E gli altri?”. “Gli altri avevano paura a farlo… mi sa…”. “E perché?”. “Devi chiederlo a loro”. “Vabbè, ma allora perché tu non hai avuto paura di farlo?”.

La vera verità, è che non capisco perché dovrei averla, paura. Sono come quello che si ritrova a urlare da solo perché al tre tutti improvvisamente esitano, o come quello che va avanti con la torcia in mano poi si gira e si accorge che gli altri non hanno fatto un passo. Beh?!
Però c’è anche che mi sento abbastanza sicura di come lavoro, della mia competenza e del mio senso di responsabilità, da illudermi di essere forte. Vengo da una scuola in cui la maestra ti faceva pubblicamente i complimenti se ammettevi di essere il responsabile di una marachella, premiando a voce alta la tua onestà. Davvero la Rai potrebbe farmi fuori se racconto quel che è scritto nei contratti che firmo da sette anni? Non ci credo: sono onesta. Pora ingenua, dite?
Se anche questa sicurezza non bastasse, c’è che io fuori dalla Rai ho un giro e un mercato. Non tengo famiglia e non lavoro solo per la Rai. Questo sicuramente mi rende meno debole di alcuni colleghi. Ma se la Rai mi facesse fuori non sarei per niente felice.
Perché, terza e più sentita ragione, se racconto quel che non funziona nel nostro rapporto con la Rai è perché alla Rai ci tengo, la Rai mi piace, alla Rai, al netto di certi problemi amministrativi, burocratici, e faccende di fatture e rimborsi (cose tutt’altro che secondarie), insomma alla Rai sono grata. Faccio un lavoro bellissimo e ho imparato un sacco di cose, grazie ai miei capi e ai miei colleghi. Solo che ci sono tante cose che non vanno, per esempio quei contratti (il contratto, non la singola clausola, ribadisco). E raccontarle, o almeno osservarle, mi sembra quasi un dovere. Se con i miei piccoli mezzi segnalo qualcosa che non va, è solo con l’idea di migliorarlo.
Mica voglio mettermi nei guai, ci mancherebbe: non ci guadagnerei nemmeno nulla.

Ma da qua, dal basso, si ha una prospettiva particolare. Per esempio si vedono i miei bravissimi colleghi di Radio3, molti dei quali sono stati scelti uno per uno per le competenze particolari e per la dimestichezza con il mezzo radiofonico (insomma: dove lo trovi un esperto di musica classica che sia anche bravo con il microfono? o uno capace di fare documentari radiofonici, mettendo insieme racconti e musica? o uno che si occupi di scienza, dal neutrino al mitocondrio, e conosca qualche migliaio di scienziati italiani?), vedo questi bravissimi professionisti mortificati da compensi sempre più bassi e da contratti sempre più instabili. E vedo che rischiamo di perderceli, i bravissimi professionisti. Allora che investimento abbiamo fatto su di loro?
Abbiamo, dico: perché oltre che essere una che lavora in Rai, sono anche un’italiana che paga con convizione le tasse per mantenere in piedi il servizio pubblico. Prima che come lavoratrice, certe faccende Rai mi toccano come cittadina. Mostrare le debolezze di un sistema mi sembra un modo per difenderlo e si difende soltanto quello in cui si crede. Anche se, lo ammetto, all’epoca non ci avevo pensato troppo. Non mi sembrava di piantare un casino: mi sembrava solo di raccontare una cosa che poteva persino essere utile al dibattito. Senza paura.

 

La clausola gravidanza e i contratti che ho sempre firmato. Una precisazione

Sono in Rai da sette anni e i contratti con la clausola gravidanza, come viene chiamata da oggi, li ho sempre firmati. Credo però che rispetto al dibattito che si è scatenato qualche ora fa, sia necessario precisare un paio di cose.
Il problema vero è che quel contratto è un finto contratto libero professionale. Perché il lavoratore Rai che firma i contratti di consulenza (sia giornalista o meno, in senso tecnico) in molti casi (non sempre) lavora con orari e mansioni da dipendente. Questo rende la clausola di cui stiamo parlando profondamente ingiusta. Ma solo questo. Ed è qui il busillis. Se uno è davvero un libero professionista che offre la sua prestazione a un’azienda è abbastanza ragionevole che sia tenuto a comunicare alla stessa un impedimento per cui sia impossibilitato a portare avanti il proprio lavoro. Intendo: se l’idraulico che mi sta rifacendo i bagni si rompe un braccio (cadendo dal motorino per strada, ecco) io lo voglio sapere. Magari chiamo un altro idraulico. Chiaro: se la prestazione che mi deve offrire non prevede continuità, non mi interessa molto (tipo: se mi deve portare a casa il bidet nuovo, che decida di farlo anche col braccio rotto sono solo fatti suoi. E verrà pagato a bidet consegnato). Ma se per tre mesi mi deve spaccare muri e pavimenti, insomma: è giusto che l’accordo preveda una comunicazione tempestiva del fatto che muri e pavimenti spaccati potrebbero restare a metà.
Il problema è che noi non siamo idraulici. E che molti di noi effettivamente entrano al mattino ed escono alla sera, come se fossero dipendenti senza diritti.
Seconda precisazione. Quella clausola parla anche di malattia e di infortunio. Non è questione di sessismo. Non è la gravidanza “vista come una malattia”. Se la mia idraulica è femmina e il lavoro che mi deve fare dura, poniamo, due anni (ho molti bagni in casa…) anche un suo eventuale allattamento credo che sia ragionevole che me lo comunichi. Si tratta della categoria cose-che-potrebbero-metterti-in-condizione-di-non-finirmi-i-lavori-in-casa.
Credo che ci sia molto da arrabbiarsi e molto da lottare (infatti un post sul tema lo avevo scritto già a luglio scorso). Ma attenti a non confondere le idee.

Me lo scrivo e me lo compro: Sandokan, l’editore e un libro che non uscirà mai

C’era una volta Emilio Salgari, con l’accento sulla seconda A (quello di Sandokan, sì). C’era una volta, dicevamo, e ormai non c’è più, da un secolo buono, da quando si è suicidato con un rasoio in un bosco sopra Torino. Ma c’era una volta, e finché ha avuto le sue cento sigarette al giorno, il suo marsala e la sua sterminata fantasia da consumato contaballe, era lì, inchiodato alla sua scrivania, a scrivere scrivere scrivere, per consegnare ai suoi editori tre o quattro romanzi all’anno. Un forzato della penna, si dice di uno così, uno da ottanta titoli in una vita, famoso in Italia e all’estero per le sue avventure da sedicente capitano di marina, in Malesia o nelle Antille, in India o nel Far West. Ma a dispetto del grande successo, Salgari era sempre in bolletta. Si era fatto fregare dagli editori, era stato ingenuo, oppure semplicemente non aveva calcolato che di scrittura non si vive e soprattutto non ci si mantiene una famiglia di sei persone. E allora un gruppo di colleghi di una rivista letteraria…
Che cosa c’entra questa storia con questo blog? Beh, proprio mentre mi gustavo la biografia di Salgari ho ricevuto una mail, e mi sono sentita un po’ Sandokan anch’io.

Dice: Gentile dottoressa, dopo i nostri ultimi contatti non ho avuto più notizie e siccome stiamo per chiudere la programmazione editoriale di quest’anno ci chiedevamo a che punto fosse il suo progetto. E poi: magari ne ha anche uno nuovo, del quale possiamo parlare.
Oddio, penso io sprofondata in quel sedile di frecciarossa, impugnando con orrore il telefonino. Che cosa devo consegnare? Quando? Perché? Di che cosa stiamo parlando?! Lo sapevo, proseguo a rimuginare, sono andata in overflow. Troppe cose, e questa è saltata. E proprio non ricordo…
Finché, un lampo.

Due anni fa mandai a un editore, un editore niente male che ha pubblicato bei saggi e libri di gente che stimo e conosco, un progetto per un libro che avrei scritto a quattro mani con un amico: un progetto che a noi ingenui sembrava proprio carino ma che forse era un po’ troppo di nicchia, come si dice oggi, per poterlo pensare di successo. L’editore ci aveva chiesto di limarlo, di aggiustarlo, di fare un capitolo di prova. Beh, prova: non sarebbe stato il primo libro per nessuno dei due e quello delle altre due mani è pure un accademico (ma di quelli bravi). Comunque noi avevamo eseguito, scritto la prova, confezionato il progetto. E consegnato.
Dopo qualche giorno la risposta era stata: bellissimo, davvero interessante. Ma in questo periodo di crisi non possiamo impegnarci a meno che non ci garantiate il preacquisto di un certo numero di copie. Traduzione: noi stampiamo mille copie (se proprio vi va di lusso) e cento le comprate subito voi. Fatevi i conti, con un prezzo di copertina normale, di quel che ci stava chiedendo.
Noi, che viviamo di lavoro e di una solida dignità, avevamo rigraziato e chiuso lì la storia. Un secondo editore ci ha poi detto di no e così quel progetto è tornato nel cassetto insieme a tanti altri. E forse ci rimarrà, forse davvero non era un granché.

Ma allora che cosa mi sta dicendo, oggi, lo stesso editore? Sono lì sul frecciarossa, distratta e annoiata, ma credo di averlo capito. Ci sta provando. Sta facendo il furbo. Ha pensato: hai visto mai che adesso questa le cento copie se le compra davvero e poi le va a vendere con un tavolino per strada come il Freud di Nanni Moretti.
Vabbè, del resto i nostri contatti sono sempre stati cordiali e onesti e provarci è legittimo. Ma che delusione. Chissà gli altri libri come li ha piazzati, se anche agli altri autori ha chiesto il preacquisto. E chissà perché oggi si fa di nuovo vivo con me. Rispondo cortesemente e cortesemente declino. Non sono una da tre libri all’anno: forse sono una da tre libri in una vita, non mi sono mai inventata un Sandokan antropofago e per fortuna non ho mai pensato di vivere di quello. Ma sono passati cento anni e, come il contaballe Salgari pur senza il suo rasoio, mi sento un po’ delusa anch’io.

“Sempre caviale, sempre caviale!” In attesa della prossima dichiarazione ministeriale sui giovani-d’-oggi

A otto anni ho cambiato città. La mia nuova maestra era una napoletana grassa e antipatica, che ogni mattina mi stritolava in un abbraccio sudato. All’epoca ero dieci centimetri più bassa dei miei compagni di classe, avevo i capelli a pentolino e un tenerissimo viso da bambolotto che era la sua passione. Così tutte le volte mi abbracciava, mi sbaciucchiava, mi diceva sputazzando che ero la sua bambina dolce, poi mi afferrava per le spalle, mi guardava negli occhi e mi chiedeva: E tu ci vuoi bbéne alla tua nuova maéstra eh?! Dopo un paio di mesi, ispirata da qualcosa che dovevo aver sentito in casa, le risposi seria: Mi scusi maèstra, ma queste son domande che non si fanno. E per lei da quel momento non sono esistita più.

Sono cose che si imparano da piccoli: ci sono domande che non si fanno, frasi che è meglio non dire. In casa mia lo sentivo dire spesso: eeeee… unistabbène, via! Cioè: lo puoi pensare, ma poi tienitelo per te. Tipo: se uno a ventotto anni non lavora, è iscritto all’università coi soldi di babbo e mamma e non si è ancora laureato, o ha qualche problema o tanto figo non riesco a considerarlo. Ma non lo dirò ad alta voce. Tanto più che uno studente universitario costa alle casse dello stato molto di più di quel che paga di tasse. Chi si laurea in pari ha anche il merito, che andrebbe pubblicamente riconosciuto, di averci fatto risparmiare tutti. Ma lo tengo per me. Poi sì, ci sono quelli che lavorano per mantenersi, che si fanno un gran mazzo, e università dove ti ostacolano in tutti i modi anche a fare le cose normali. Ma, sempre tra me e me, non ne ho conosciuti molti di questi eroi. E comunque, ventotto anni sarà del tutto arbitrario, ma oggi ti danno un foglio con scritto laurea anche in tre anni: ventotto, per dire, significa che cinque anni dopo sei sempre lì. Ma non lo dirò. In fondo, ai miei amici fuoricorso ho sempre voluto bene lo stesso. E comunque, se lo dicessi io chissenefrega: non sono mica sottosegretario.

Il posto fisso non esiste più, qualcuno si stupisce? Non sono al governo, ma l’ho scritto più di un anno fa. E l’ho declinato scrivendolo in prima persona: non avrò mai un posto fisso ma pazienza. Anzi, che bello, toh, che dinamismo e che vivacità. Posso dirlo, che bello, solo per me e con un bel po’ di cautela. Ma non posso permettermi di dirlo per nessun altro e forse non posso nemmeno pensarlo. Che ne so, io, di chi non ha potuto scegliere il proprio lavoro o di chi, adesso, lo sta perdendo nel pieno di questo dramma nazionale, o di chi si trova a fare lavoretti sottopagati per campare e così via? Se poi fossi primo ministro in un periodo in cui i miei coetanei fanno la fame so che non potrei dirlo né potrei proprio permettermi di pensarlo, e per precauzione mi farei tatuare sul cervello l’immagine di una bambina di otto anni coi capelli a pentolino e il ditino alzato, capace di dirmi, sfrontata, caro senatore a vita (e ripeto: a vita), queste non son cose che si dicono.

E poi c’è la storia del posto di lavoro vicino a mamma e babbo. Io di gente che ha macinato chilometri per lavorare ne conosco a pacchi. A pacchi davvero. Ma conosco anche gente che non fa figli perché mamma e babbo ormai sono troppo lontani e come fai a permetterti un bambino in certe città, con certi stipendi, a certe condizioni? Conosco gente che è tornata a casa e poi si è fatta un mazzo così per restituire al suo paese quel che il paese ha dato per lei, e vive con due lire ma riesce ancora a spendere il suo tempo per il volontariato. E conosco gente, in effetti tanta gente, che è rimasta nella propria cittadina, ha scelto di essere meno ambiziosa in cambio di una vita serena, e adesso non mi sento di biasimarla affatto. Io passo due ore al giorno sui mezzi pubblici e non ho il tempo di fare la spesa o di organizzare una festa di Carnevale: ma la mia è una libera scelta e chi mi trova arrivista, e dice che per il lavoro non si può sacrificare così la qualità della vita, forse un pezzetto di ragione ce l’ha. Io lo trovo un po’ pigro, un po’ deludente. Ma non sono ministro dell’interno e lo posso anche scrivere ad alta voce: i miei amici che sono rimasti in provincia qua a Roma avrebbero spaccato il mondo, sarebbero stati i più bravi tra i bravi, peccato che se ne siano rimasti là.

Però, un paio di giorni fa, a poche ore di distanza, ho avuto due dialoghi desolanti con due amiche che si sono laureate prima dei fatidici ventotto, non si sono mai poste il problema della noia sul lavoro, e mamma e babbo li hanno salutati più volte: cari uomini di governo, voi vi sareste davvero complimentati con entrambe.
Tutte e due avevano appena rifiutato di lavorare gratis: sono iperqualificate, sono più che adulte, e amano quel che fanno (o che sanno fare e che farebbero volentieri). Hanno semplicemente rifiutato di passare il proprio tempo a regalare competenza a chi manco le ringrazia. O forse le ringrazia anche, ma che ci fai con i grazie? Solo che in quel momento avevano in gola un nodo grosso così, un nodo di umiliazione e rabbia.
Tutte e due sono appena tornate a vivere coi genitori causa indigenza, non causa pigrizia, cari ministri. Tutte e due sono rientrate da un lungo e felice periodo di lavoro all’estero, e probabilmente, a malincuore, all’estero torneranno e resteranno, a questo punto a ogni costo, e quello di vedere babbo e mamma una volta ogni tre mesi è di sicuro il costo minore. Tutte e due sono state, ormai tanto tempo fa, brave studentesse in cui il nostro paese ha, giustamente, investito. E adesso sono deluse, depresse, avvilite. Io a loro io non so che cosa dire, io che sono felice con la mia flessibilità e vivo solo a trecento chilometri da casa. Ma di certo quello che voi state dicendo loro, a noi, a tutti noi, fa davvero molto male.

Alice nel paese della scienza in bianco e nero

Nel paese della gente normale, quella che la scienza non la tocca nemmeno con la punta dello scarpone, vivono due scienziati. Quello Deipoteriforti e quello Autorevole.
Il primo, lo scienziato Deipoteriforti, è un barone appesantito dagli anni e dal potere. Pratica una scienza rigida e ortodossa: se è medico è medicina ufficiale, sennò è generica scienza tradizionale. Di sicuro ha qualche interesse sporco: se è medico, è legato alle farmaceutiche e riceve ricchi soldoni per prescrivere farmaci inutili ai suoi pazienti. Altrimenti deve tenersi stretta la poltrona, deve difendere la propria inefficienza, deve mascherare ai cittadini, che nolenti lo finanziano con le loro tasse, alcune sue lacune tipo l’incapacità di prevedere terremoti, caduta di meteoriti e altre catastrofi.
Lo scienziato Deipoteriforti è uno che difende lo status quo. E allora, se sei un paziente trovati un alternativo, se sei un giornalista trovati una voce fuori dal coro, se sei un cittadino, comunque, non fidarti.

Lo scienziato Autorevole è uno che sa la Scienza, con la Esse maiuscola. E non serve metterlo mai in discussione. Perché la Scienza è una sola e quindi, esimio professore, vorrei tanto che lei cortesemente mi spiegasse, mi chiarisse e mi desse il suo illuminato parere. Che è uno. Ed è il parere della Scienza. E noi qui ad abbeverarci dalla fontana della sua saggezza.
Tipo. Una volta, una collega mi disse che per un’intervista su una questione di energia nucleare avrebbe chiamato un suo amico biologo. Faccio scusa, ma che c’entra un biologo?! Risponde ma lo saprà quali sono i rischi per la salute di una centrale nucleare: è biologo! E le tante volte che ma quello è uno scienziato, eh, uno che ha studiato!

Nel paese della gente normale, che con la scienza ha rapporti saltuari improntati alternativamente al massimo della sfiducia o al massimo della fiducia, per esempio non si prendono gli antibiotici perché le multinazionali del farmaco pensano solo al profitto, e si spendono gli stessi soldoni per sciroppi garantiti nonscientifici: sciroppi prodotti, si presume, da benefattori che vivono d’aria e di amore. Oppure si prendono tonn di antibiotici anche per l’influenza, e si guardano con attenzione medici danarosi tenere dotte lezioni alla tivvù sull’urgenza di farsi visitare per il rischio di gomito della lavandaia. Poi si ascolta a bocca aperta il parere del solito luminare del tutto, che dispensa saggezza a trecentosessantagradi. E si divorano interviste a scienziati da non contraddire, che riescono a essere contemporaneamente Autorevoli, col bollino della scienza, ma anche Vocifuoridalcoro, senza bollino della scienza. Perché ragionano di pancia, si dice, o di cuore, perché non sono servi di nessuno.

Da un po’ di tempo in qua, ho notato che la stessa bipolarità la vivo anch’io. A volte mi trovo a mettere in guardia colleghi e gente del paese della gente normale: beh, guardate che se il 99% degli scienziati la pensa così forse è quell’1% che non è così attendibile… alternato a beh, guardate che gli scienziati non sono mica dei santi: anche loro potrebbero avere il loro tornaconto… con assurdi cortocircuiti e strani giochi di stereotipie.
Fino al paradosso, che qualcuno dei colleghi più svegli smaschera in fretta, nel mondo della gente normale. Io: ma questo scienziato cattedratico accademico non mi sembra che stia facendo un gioco tanto pulito… Collega: non starai mica contro agli scienziati cattedratici accademici, proprio tu, che sei una scienziata?!
Fatemi tornare di là dallo specchio.