“Ciao, ti sto chiamando per la clausola gravidanza del contratto delle collaboratrici Rai. Mi sembra che il tuo sia stato il primo blog a parlarne, l’estate scorsa”. “Guarda, non lo sapevo nemmeno. Ne ho scritto, quel giorno lì, dopo un’assemblea in cui ne avevamo parlato…”. “Perché, voi sapevate che c’era?”.”Certo, è il nostro contratto! Anche se in effetti ne abbiamo parlato per la prima volta un po’ meno di un anno fa, tra l’altro proprio in occasione di un incontro con quei sindacati che oggi cascano dalle nuvole e…”. “Ma perché finora non lo avete mai raccontato anche pubblicamente?”. “Beh, io ne ho scritto sul mio blog quasi un anno fa, appunto”. “E gli altri?”. “Gli altri avevano paura a farlo… mi sa…”. “E perché?”. “Devi chiederlo a loro”. “Vabbè, ma allora perché tu non hai avuto paura di farlo?”.
La vera verità, è che non capisco perché dovrei averla, paura. Sono come quello che si ritrova a urlare da solo perché al tre tutti improvvisamente esitano, o come quello che va avanti con la torcia in mano poi si gira e si accorge che gli altri non hanno fatto un passo. Beh?!
Però c’è anche che mi sento abbastanza sicura di come lavoro, della mia competenza e del mio senso di responsabilità, da illudermi di essere forte. Vengo da una scuola in cui la maestra ti faceva pubblicamente i complimenti se ammettevi di essere il responsabile di una marachella, premiando a voce alta la tua onestà. Davvero la Rai potrebbe farmi fuori se racconto quel che è scritto nei contratti che firmo da sette anni? Non ci credo: sono onesta. Pora ingenua, dite?
Se anche questa sicurezza non bastasse, c’è che io fuori dalla Rai ho un giro e un mercato. Non tengo famiglia e non lavoro solo per la Rai. Questo sicuramente mi rende meno debole di alcuni colleghi. Ma se la Rai mi facesse fuori non sarei per niente felice.
Perché, terza e più sentita ragione, se racconto quel che non funziona nel nostro rapporto con la Rai è perché alla Rai ci tengo, la Rai mi piace, alla Rai, al netto di certi problemi amministrativi, burocratici, e faccende di fatture e rimborsi (cose tutt’altro che secondarie), insomma alla Rai sono grata. Faccio un lavoro bellissimo e ho imparato un sacco di cose, grazie ai miei capi e ai miei colleghi. Solo che ci sono tante cose che non vanno, per esempio quei contratti (il contratto, non la singola clausola, ribadisco). E raccontarle, o almeno osservarle, mi sembra quasi un dovere. Se con i miei piccoli mezzi segnalo qualcosa che non va, è solo con l’idea di migliorarlo.
Mica voglio mettermi nei guai, ci mancherebbe: non ci guadagnerei nemmeno nulla.
Ma da qua, dal basso, si ha una prospettiva particolare. Per esempio si vedono i miei bravissimi colleghi di Radio3, molti dei quali sono stati scelti uno per uno per le competenze particolari e per la dimestichezza con il mezzo radiofonico (insomma: dove lo trovi un esperto di musica classica che sia anche bravo con il microfono? o uno capace di fare documentari radiofonici, mettendo insieme racconti e musica? o uno che si occupi di scienza, dal neutrino al mitocondrio, e conosca qualche migliaio di scienziati italiani?), vedo questi bravissimi professionisti mortificati da compensi sempre più bassi e da contratti sempre più instabili. E vedo che rischiamo di perderceli, i bravissimi professionisti. Allora che investimento abbiamo fatto su di loro?
Abbiamo, dico: perché oltre che essere una che lavora in Rai, sono anche un’italiana che paga con convizione le tasse per mantenere in piedi il servizio pubblico. Prima che come lavoratrice, certe faccende Rai mi toccano come cittadina. Mostrare le debolezze di un sistema mi sembra un modo per difenderlo e si difende soltanto quello in cui si crede. Anche se, lo ammetto, all’epoca non ci avevo pensato troppo. Non mi sembrava di piantare un casino: mi sembrava solo di raccontare una cosa che poteva persino essere utile al dibattito. Senza paura.