Dobbiamo parlare degli americani.
Quando una notizia nasce in America, nel giro di poche ore la riprendono i giornali di tutto il mondo.
E chi sono io, che scrivo in italiano e anche pochino, per decidere che no, prima di farla uscire nella mia lingua minoritaria, ne valuto il “reale peso scientifico”, indipendentemente da chi abbia dato la notizia e da chi l’abbia pubblicata? (come se esistesse poi una misura chiara, univoca ed eterna del “reale peso scientifico” e come se fosse facile stabilirla, per gli scienziati stessi, finché la notizia è sotto embargo).
Ma soprattutto: avete idea di che buca pazzesca prenderei, e di quanti femtosecondi durerebbe la mia residua carriera, se invece di darla insieme a tutti gli altri volessi aspettare quei venti giorni per concedere allo scienziato europeo il tempo di leggerla e rifletterci per bene, discuterla coi colleghi, decidere una linea di comportamento?
Quindi arriva la notizia americana, e io scrivo.
Del resto, faccio tutte le mie verifiche e so valutare la rivista che pubblica la ricerca o l’istituto da cui viene l’hype. Scrivo di scienza, mica scrivo di gossip, e mica da ieri.
Ma mentre scrivo, so già che poi, puntualmente, dopo quei venti giorni lì, arriverà lo scienziato amico mio a dirmi “bello il tuo articolo su quella roba, eh, poi lo so che è una cosa della Nasa (o è uscita su Science), ma sai che, insomma, non è che fosse poi una gran notizia perché qui in Europa…”.
E ha ragionicchia, ragionella, ragionuccia.
Dopo venti giorni sono buoni tutti, eh. Quindi nemmeno lui se la prende con me, e poi io mica scrivo di gossip, dicevo. Io scrivo di pubblicazioni scientifiche su riviste peer-reviewed o di lanci dati da istituzioni scientifiche serie.
Però forse c’è un problema interno alla scienza, di cui il mio lavoro è un (irrilevante) riflesso. Cioè la scienza americana ha dei megafoni potentissimi e a volte può permettersi di giocare pesante. A volte viene il sospetto che lo faccia per precedere l’analogo esperimento europeo, o (più comprensibilmente) per uscire sui giornali con tutta la sua potenza di fuoco approfittando di un periodo di calma piatta. Comunque lei sa come si fa a uscire in tutto il mondo e io, nel mio pezzettino di Europa, mi trovo come tutti con un press release un po’ tricky nei contenuti ma perfetto nei modi e nelle forme. E che cosa devo farne, se non scriverci su?
Lo scienziato europeo lo sa. Se non lo sa glielo spiego. Ma, accidenti, nel giro di un paio di mesi mi è successo ben quattro volte. Io e lui, che cosa possiamo farci?
Una volta gli americani hanno deciso che un criterio statistico vale quanto un’osservazione diretta, poi forse hanno aggiustato un po’ i conti, e la notizia è diventata “scoperti 750 esopianeti!”, quando a leggere per bene l’articolo si capiva che la parola “scoperta” era fortina. Lo scienziato europeo mi ha spiegato tutta la questione e la ragione della propria perplessità, ma intanto il press release americano veniva ripreso da mezzo mondo (poi, nel mio caso, il pezzo non è uscito per altre ragioni).
Un’altra volta gli americani hanno dichiarato di aver “visto finalmente” le onde gravitazionali. Tutto il mondo ha supertitolato a caratteri cubitali, e a ragione, perché si trattava di una grande notizia. Poi abbiamo capito che erano misure indirette, che comunque oggi vengono molto molto molto ridimensionate. Ma in quel momento dovevamo parlarne anche perché tutto il mondo ne stava scrivendo. E anche gli scienziati europei hanno subito risposto a tutte le interviste. Quello di cui non ci siamo resi conto è che il problema, adesso, si pone per qualsiasi altra futura notizia sul tema: provateci voi a scrivere di onde gravitazionali sui quotidiani per il prossimo anno o due.
Poi c’è stata una soglia di Co2 decisa in maniera arbitraria, ma capace di creare un notizione bomba. In quel caso la vedo come un modo per far arrivare sui giornali un argomento poco sexy, che senza soglia e giornata dei record è difficile da far passare. Ed è un espediente narrativo-giornalistico per me più che accettabile. Però gli scienziati europei, dopo i canonici venti giorni, hanno avuto da ridire. Col giornalista italiano, lì per lì, ma poi hanno riconosciuto che il primum movens è stato un istituzionalissimo press release firmato da una serissima istituzione scientifica americana. Il dito e la Luna: e anche loro hanno sospirato: “ah, gli americani…”.
Infine il caso della Luna, fuor di metafora. Bellissima notizia, firmata da tedeschi. Però uscita su Science, americano. Quindi ultravitaminizzata. I dati venivano presentati come riconducibili a un’unica interpretazione. E la cosa veniva data come “prova definitiva”. Anche qui, ovvio che noi italiani ne dobbiamo parlare e ovvio che la notizia c’è eccome, però anche qui, dopo venti giorni, ti trovi a dire che, insomma, di definitivo c’è solo la morte e comunque “beh, dai, sono americani…”.
Se non sono sicura che questo sia un problema (in realtà, credo che sia perfettamente nelle regole del gioco), di sicuro la soluzione, per me, c’è.
Ed è quella di scrivere articoli equilibrati in cui ci si fa guidare da quel meraviglioso tarlo della mente umana che è il dubbio. E in cui si usa quell’indispensabile strumento del giornalista che è la telefonata di verifica.
Vabbè, questa era facile.
Però gli scienziati europei?
Perché questo meccanismo finisce per creare degli al-lupo-al-lupo o per scatenare l’efetto noja, e non solo per promuovere la scienza americana a discapito di quella europea. L’informazione ha i suoi meccanismi e, se gli americani hanno imparato a dirigerli benissimo, bisognerebbe che gli altri imparassero a capirne le conseguenze.
Una notizia non è mai solo una notizia. E se ciascuna notizia non cambierà il mondo (e pazienza se succede di parlare di un esperimento che in realtà rispetto a quell’altro…), tutte insieme creano immaginari e idee della realtà. In seconda battuta creano dibattiti e agende politiche. Mica vorremmo raccontare in giro che la scienza è solo americana?