Sono scaduta. Venerdi, ieri l’altro, sono scaduta.
In genere funziona così.
A due settimane dalla fine del contratto pensi quanto sarà bello non doversi alzare al mattino per correre in radio e uscirne nel pomeriggio tardi senza aver avuto il tempo di fare quelle mille cose in sospeso da mesi. Un po’ come le ferie per chi fa lavori normali, immagino. Che bello, arrivano le ferie.
Poi invece arrivano le notti agitate. Due o tre, non di più. Di notte ti disperi e pensi che non sei più capace di accettare l’umiliazione di un posto di lavoro che ti tratta in quel modo: ti cerca, ti seleziona, ti alleva, ti insegna, ti fa stare lì otto ore al giorno o anche di più a fare di tutto e ti fa anche i complimenti e ti incoraggia, ma intanto ti propone contratti da quattro mesi e mezzo intervallati con geometrica cattiveria da buchi di sei settimane. Contratti in cui si dice che sei una che lavora da casa e che offre la sua consulenza, una che quando si presenta all’ingresso riceve un pass da visitatore (e io ne ho uno per ogni giorno feriale per nove mesi all’anno per sei anni: un bustone enorme). Contratti in cui sei pagata a puntata (già: una consulenza a puntate), ma il compenso non è contrattabile ed è sempre più basso: ormai praticamente un migliaio di euro netti al mese, per nove mesi soltanto. E poi contratti che si interrompono per gravidanza, malattia o infortunio. Insomma, dov’è la mia dignità?
E’ un lavoro bellissimo, il mio. Ma a ogni scadenza di contratto, come quella di ieri l’altro, ci sono le notti agitate che si concludono con un risveglio da vomito e il pensiero mai più, stavolta dico davvero di no.
Poi arriva la fase battagliera e ti inventi di tutto. Scrivi mail, parli ai colleghi, lanci appelli. E magari chiedi contratti più corti. Più corti, sì: di solito quelli come me pietiscono contratti più lunghi: siamo pagati a puntata, appunto, quindi più puntate sono più soldi. Ma se lo chiedi più corto i tuoi capi si devono porre il problema: e quando il suo contratto sarà finito? Perché tra collaboratori abbiamo meccanismi di alternanza strettissima e tutti (salvo deroghe) dobbiamo fare dodici settimane senza contratto. Se uno finisce prima, l’altro deve cominciare prima, e non si può: ci sarebbe un lavoratore (il secondo) che lavora più di nove mesi all’anno.
Nel frattempo, spargi la voce di essere sul mercato. E anche questa non è facile. Richiede un bel po’ di consapevolezza di sé: consapevolezza professionale, intendo, poche pippe. So fare tante cose, ma non sono più una ragazzina e ho un curriculum pesante: al più, posso trovare qualche collaborazione, ma per certe cose da sopravvivenza sono troppo qualificata mentre per altre non ho le conoscenze giuste, forse. E poi niente è bello come il lavoro alla radio, accidenti a Marconi.
Infine passa anche la fase battagliera e ricominci a viaggiare sul si vedrà, quel che sarà sarà, lasciatemi qui e dimenticatevi di me. Salvo rispondere al telefono di casa con voce compita, e al posto di pronto dire radio3scienza.
Ma insomma, bando ai sentimentalismi: ci sono le ferie! Domani, per esempio, vado al mare con i miei amichetti e un po’ di bambini: ho appena comprato un costume da bagno nuovo per euro quindici.
Ne riparliamo tra sei settimane, quando vivrò giorni dal pattern inverso: fase battagliera (stavolta col cavolo che firmo), fase disperata (e ora dovrò di nuovo andare in quell’ufficio, a firmare quel contratto, a calpestarmi con le mie suole… sigh, sigh, sigh, aaahhh…), fase costruttiva (finalmente ricomincio a lavorare in quel posto, con quella gente, a fare quelle cose che mi piacciono tanto! e ad avere un orario sensato, a non buttare il mio tempo, a guadagnarmi la pagnotta…).
Ogni tanto mi domando se tutto questo non richieda un bell’equilibrio mentale, che adesso evidentemente ho ma non è detto che manterrò a lungo.
Il più delle volte, però, mi chiedo semplicemente come andrà a finire.