Archivio mensile:luglio 2011

Yogurtissima me: sono scaduta e non per colpa del caldo

Sono scaduta. Venerdi, ieri l’altro, sono scaduta.
In genere funziona così.
A due settimane dalla fine del contratto pensi quanto sarà bello non doversi alzare al mattino per correre in radio e uscirne nel pomeriggio tardi senza aver avuto il tempo di fare quelle mille cose in sospeso da mesi. Un po’ come le ferie per chi fa lavori normali, immagino. Che bello, arrivano le ferie.
Poi invece arrivano le notti agitate. Due o tre, non di più. Di notte ti disperi e pensi che non sei più capace di accettare l’umiliazione di un posto di lavoro che ti tratta in quel modo: ti cerca, ti seleziona, ti alleva, ti insegna, ti fa stare lì otto ore al giorno o anche di più a fare di tutto e ti fa anche i complimenti e ti incoraggia, ma intanto ti propone contratti da quattro mesi e mezzo intervallati con geometrica cattiveria da buchi di sei settimane. Contratti in cui si dice che sei una che lavora da casa e che offre la sua consulenza, una che quando si presenta all’ingresso riceve un pass da visitatore (e io ne ho uno per ogni giorno feriale per nove mesi all’anno per sei anni: un bustone enorme). Contratti in cui sei pagata a puntata (già: una consulenza a puntate), ma il compenso non è contrattabile ed è sempre più basso: ormai praticamente un migliaio di euro netti al mese, per nove mesi soltanto. E poi contratti che si interrompono per gravidanza, malattia o infortunio. Insomma, dov’è la mia dignità?
E’ un lavoro bellissimo, il mio. Ma a ogni scadenza di contratto, come quella di ieri l’altro, ci sono le notti agitate che si concludono con un risveglio da vomito e il pensiero mai più, stavolta dico davvero di no.

Poi arriva la fase battagliera e ti inventi di tutto. Scrivi mail, parli ai colleghi, lanci appelli. E magari chiedi contratti più corti. Più corti, sì: di solito quelli come me pietiscono contratti più lunghi: siamo pagati a puntata, appunto, quindi più puntate sono più soldi. Ma se lo chiedi più corto i tuoi capi si devono porre il problema: e quando il suo contratto sarà finito? Perché tra collaboratori abbiamo meccanismi di alternanza strettissima e tutti (salvo deroghe) dobbiamo fare dodici settimane senza contratto. Se uno finisce prima, l’altro deve cominciare prima, e non si può: ci sarebbe un lavoratore (il secondo) che lavora più di nove mesi all’anno.
Nel frattempo, spargi la voce di essere sul mercato. E anche questa non è facile. Richiede un bel po’ di consapevolezza di sé: consapevolezza professionale, intendo, poche pippe. So fare tante cose, ma non sono più una ragazzina e ho un curriculum pesante: al più, posso trovare qualche collaborazione, ma per certe cose da sopravvivenza sono troppo qualificata mentre per altre non ho le conoscenze giuste, forse. E poi niente è bello come il lavoro alla radio, accidenti a Marconi.
Infine passa anche la fase battagliera e ricominci a viaggiare sul si vedrà, quel che sarà sarà, lasciatemi qui e dimenticatevi di me. Salvo rispondere al telefono di casa con voce compita, e al posto di pronto dire radio3scienza.
Ma insomma, bando ai sentimentalismi: ci sono le ferie! Domani, per esempio, vado al mare con i miei amichetti e un po’ di bambini: ho appena comprato un costume da bagno nuovo per euro quindici.

Ne riparliamo tra sei settimane, quando vivrò giorni dal pattern inverso: fase battagliera (stavolta col cavolo che firmo), fase disperata (e ora dovrò di nuovo andare in quell’ufficio, a firmare quel contratto, a calpestarmi con le mie suole… sigh, sigh, sigh, aaahhh…), fase costruttiva (finalmente ricomincio a lavorare in quel posto, con quella gente, a fare quelle cose che mi piacciono tanto! e ad avere un orario sensato, a non buttare il mio tempo, a guadagnarmi la pagnotta…).
Ogni tanto mi domando se tutto questo non richieda un bell’equilibrio mentale, che adesso evidentemente ho ma non è detto che manterrò a lungo.
Il più delle volte, però, mi chiedo semplicemente come andrà a finire.

Lordo, lordissimo, immondo /2: ho pagato per lavorare, accidenti a voi

E mentre l’Italia e si posiziona ben al centro del mirino della Ue per la sua situazione finanziaria, le borse vanno a picco e il paese barcolla, la mia contabilità sbanda e, più modestamente, si affanna dietro ai soliti tre debitori preestivi per i quali medito di non lavorare mai più.
Ma intanto, ecco che arriva la soddisfazione delle nove del mattino. Riepiloghiamo.

Uno dei tre debitori longlasting di metà luglio è un istituto pubblico del nord presso il quale ho tenuto una lezione di due ore ai primi di febbraio. Bene. Mi era stato detto che il treno avrei dovuto pagarlo da me e che avrei avuto un gettone netto con cui coprire le spese di viaggio e poco più. Poverini, i loro conti non sono ricchi e a me si chiedeva uno sforzo. A me. E siccome sono un cuore d’oro e conservo qualche lacerto di senso della collettività e del bene comune, quando a chiamarmi è un ente pubblico mi intenerisco facile e anche a loro avevo detto occhei.
Fatta la lezione, passavano i mesi e nessuno si faceva più sentire. Finché non mi sono arrivati, nell’ordine:
– una richiesta di preavviso di fattura con un importo pari a X (dove X è uguale al costo del biglietto del treno per due – giusto: perché se faccio una fattura con un certo importo il mio incasso è alla fine più o meno la metà di quell’importo, mentre il prezzo del biglietto del treno è quello e quello ho pagato –  più due spiccioli con cui offrire un aperitivo a chi mi stava ospitando per la notte)
– un contratto pari a X più cento (wow!)
– una richiesta di preavviso di fattura pari a X/2 (da cui avrei quindi ricavato un bel po’ meno del costo del biglietto del treno, e la differenza tra il prezzo del biglietto e X/4 – cioè il mio incasso effettivo –  corrisponde a quanto avrei pagato io per avere il piacere di andare fin laggiù a lavorare)
–  un contratto pari a X più il 20% di X.

Mancano i dettagli sulle trecento telefonate e trecento mail che hanno fatto da contorno a questa bizzarra sequenza. Ma insomma, il senso è chiaro. Per loro, mi dovevano dare X/2 perché il biglietto costava più o meno X/2 meno il 20%, e per quel 20% avrei dovuto ringraziare. Insistevano a parlare di netto e lordo, parole che a un professionista a partita iva fanno quasi arrabbiare (facciamo a capirsi: piantatela di dirmi che mi pagate un netto di N euro. Perché il netto reale lo conoscerà solo la commercialista e tra un anno. E comunque, se proprio vogliamo, il netto corrisponde all’incirca a N/2, non a N meno il 20%) e insistevano a dire di aver stanziato quei soldi lì per la mia lezione, proprio considerato il biglietto del treno. Allora, santo cielo, predisponete un rimborso del biglietto, oppure fate voi il biglietto, e ditelo onestamente: cara libera professionista, ci vieni a lavorare gratis da noi, che siamo un ente pubblico di quelli con due lire, ma almeno ti risparmiamo la fatica di farti il biglietto da sola?
Forse, chissà, sarei venuta lo stesso. Di certo mi sarei arrabbiata meno.

E la soddisfazione del mattino? direte voi. Beh: sono riuscita a far capire all’amministrativa che cosa significa, per me, fatturare X/2. Come? Mi ha aiutato Google: perché se una cosa la trovi su Google è vera. Allora, facciamolo insieme: mettiamo su Google fattura, netto, lordo e salta fuori questo, in cui tutti parlano proprio della questione.
Oh, santo cielo. Mi state chiedendo di pagare per aver lavorato! Beh, ormai i giochi sono fatti. Cretina che sono. Adesso non posso far altro che sconsigliare tutti i miei colleghi dall’accettare lavori da quelli lì, e piangere su me stessa. Ma adesso, è anche il momento della mia piccola personale vendetta.

Cara amministrativa, le tocca ascoltarmi mentre mi lancio in una filippica di mezz’ora sulla morte del lavoro creativo e intellettuale nel nostro paese. E sul mercato culturale che se ne approfitta dei giovani (che poi, giovani…) e che presto cesserà di esistere. Chi verrà più a farvi una lezione? E quando mai prenderò un treno per venire a fare volontariato presso un ente pubblico? Ci rendiamo conto che se il lavoro non lo si paga non è lavoro? E il mercato come si sorregge? Tra pochi anni in questo paese il lavoro intellettuale chiuderà baracca, oppure esisterà solo se profumatamente finanziato dai privati. Proprio voi, enti pubblici, non dovreste metterci in condizione da rifiutare le vostre richieste, perché prima o poi non vi ascolteremo più. E allora sì che sarete poveri: poveri di idee, tanto per cominciare, e di legami con la realtà.

(Beh, rileggo l’attacco del post. Non… Cioè… Insomma. Ma se questo paese è messo così male, forse chiuderemo baracca comunque. Capisco: chi se ne frega del mercato culturale se abbiamo un debito pubblico pari al 120% del Pil. O forse no. Non so. Più probabilmente le vicende estive della mia contabilità non hanno niente a che fare con Angela Merkel e la zona euro. Mi resta solo da scrivere un paio di mail di fuoco agli altri due debitori e di godermi, ancora per qualche minuto, la piccola soddisfazione di aver rotto le balle a chi mi stava proponendo di pagare per lavorare. E, accidenti, lo faceva anche con un gran bel sorriso).

“Non leggete quel contratto”: il film de’ paura dell’atipico Rai

Lavoro per du’ lire: non ho paura a dirlo, magari un po’ di vergogna sì. Ma paura… perché? Dice che sul nostro contratto c’è scritto che non possiamo parlare male della Rai. E ci mancherebbe altro. Credo di aver trovato l’articolo. Dice che ella, cioè io, si impegna per tutta la durata del contratto, ad attenersi (la virgola non è mia, ndr) al Codice stesso, osservando un comportamento ad esso pienamente conforme (nemmeno la d eufonica in quel posto lì è mia, ndr) e che non risulti lesivo dell’immagine e, comunque, dei valori morali e materiali in cui il gruppo RAI si riconosce e che applica nell’esercizio della propria attività, anche con riferimento ai rapporti con terzi. Traduzione: se lavori per noi, ci si aspetta che tu non parli male di noi. Mi sembra giusto. Però se arriva qualcuno e mi chiede di spiegare come diavolo lavoriamo noi atipici della radiofonia Rai, e soprattutto se ho cominciato da un po’ a pensare che (santo cielo) parliamo di precarietà in tutte le forme e proprio a noi tocca raccontarla, ma non parliamo mai di precariato nell’informazione e con questo siamo quasi disonesti… insomma: mica si tratta di parlar male. Si tratta di raccontare.

Lavoro nove mesi all’anno per la Rai come consulente, con un contratto di consulenza che ce così l’ho soltanto io. Nel senso che dalle mie parti siamo tutti liberi professionisti che lavorano con partita Iva, ma ognuno ha un contratto tagliato su di sé ed è anche per questo che ci chiamiamo atipici. L’atipicotipo non esiste. Io sono esperto tecnico, con un compenso che vale solo per me e siccome sono femmina ho una clausola sulla gravidanza. Però abbiamo tutti la questione dei nove mesi di lavoro, e negli altri tre (visto che siamo liberi professionisti e abbiamo la partita Iva) non abbiamo sussidi di disoccupazione: semplicemente lavoriamo per altri. Oppure non lavoriamo. Ma qui la Rai non c’entra più.
Quando lavoro, ho un contratto che dice il numero esatto di puntate per cui presterò la mia consulenza e il prezzo di ogni puntata. No, fermi: lo dice il contratto, non lo dico io. Se lo potessi dire io, mi pagherei un po’ di più di quei 105 euro lordi al giorno, che poi significa un po’ più di 50 euro netti, come abbiamo discusso in un precedente post, cioè un migliaio di euro netto al mese, per nove mesi all’anno. Non lo dico io e nemmeno lo contratto: posso solo firmare.
Ecco, di questo mi vergogno: ho firmato un contratto che mi garantisce, più o meno, un migliaio di euro al mese.
E quello che faccio, cioè in che cosa consista la mia consulenza, lo potete sentire accendendo la radio.
Tutto questo succede da sei anni. All’inizio, a dire il vero, avevo un compenso più alto, poi negli anni si è abbassato. Si è abbassato per tutti: è un infinito periodo di crisi e va così, dice. Per tutti. Non ci si può ribellare.
Vado avanti con la lettura del contratto. Dice anche: nel caso di Sua malattia, infortunio, gravidanza (sono molto femmina, lo so, ndr. e la maiuscola non era mia), causa di forza maggiore od altre cause di impedimento insorte durante l’esecuzione del contratto, Ella (cioè di nuovo io, ndr) dovrà darcene tempestiva comunicazione. Perché se non sono più in grado di garantire la mia opera di consulenza mi si dovrà sostituire in fretta, immagino.
E poi boh. Non riesco a leggerlo davvero. Mi trovo a cercare di capire in che cosa consista un sacco di impegni che mi si chiede di prendere (capisco solo quello di non fumare, e pochi altri) e riconosco solo che l’indirizzo di casa è sbagliato. C’è ancora quello di Pisa, buffo.

Ma non sto parlando male di nessuno, salvo forse di me. Se l’ho firmato, vuol dire che va bene a chi lo ha scritto e a me che l’ho accettato.
Però significa che il mio lavoro, che è la cosa più preziosa che possiedo, lo sto svalutando. Lo sto quasi regalando, per un compenso che è alle soglie della dignità. Davvero, come dice la mia amica P., potrei venire a pulirti le scale e farei più soldi (con tutto il rispetto per la professionalità di chi pulisce le scale). Mi vergogno di aver accettato queste condizioni. E di averlo fatto perché il lavoro alla radio è il lavoro più bello che c’è, e quello che so fare meglio dei tanti che ho passato in questi anni. Ho accettato di farmi pagare in bellezza. Ma con la bellezza, parafrasando Tremonti, non ci si può certo comprare il Maalox.

(No, della struttura Delta non ho capito un tubo. Ecco, forse la faccenda si spiega semplicemente così).